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Il male cosmico: Lovecraft e la paura del vivere semplice.

La paura del male, convive con l’uomo da secoli. Accompagna i nostri passi, le nostre speranze ed i pensieri più reconditi. Quello che il genere umano definisce un male, spesso si nasconde dietro la paura dell’altro, dell’ignoto, di ciò che non conosciamo e che è celato ai nostri occhi da qualcosa di più grande della realtà: la ragione.

Lovecraft, insieme all’americano Poe, si classifica come il sommo vate di queste angosce esistenziali. Le sue opere, sono pervase dall’agonia che la malvagità suscita nelle insicurezze umane, trasformandosi in qualcosa di altro e più forte, perché è la paura il supremo manifestarsi dell’essenza, del vero inconscio, delle trame lerce che filiamo dopo aver sofferto e che ci lasciano incatenati per secoli, gli uni agli altri senza saper bene cosa si sta facendo e perché.

Una delle domande più frequenti che il genere umano si pone è se la sua specie sia superiore alle altre e si chiede con precisione: da dove sia nata, come e per quale motivo ci si trovi a palpare con le nostre suole questa terra?

Lovecraft è un conoscitore esperto di questa stirpe malata che è l’umanità e nei suoi romanzi, come nei suoi racconti,  cerca di risolvere nel modo più semplice possibile le domande sopra riportate, non dando risposte, ma procurando sensazioni, iniettando dall’esterno delle angosce che sono proprie di tutti noi, non lasciandoci altra alternativa che continuare a riflettere.

Un romanzo, considerato spesso uno dei meno riusciti di Lovecraft, Alle montagne della follia, esprime alla perfezione questo concetto del male come paura dell’ignoto. La trama è basata su degli avvenimenti accaduti durante una spedizione in Antartide. Il continente di ghiaccio cela al suo interno figure mostruose provenienti da un altro pianeta, le quali, estinte da secoli, si sono mantenute in vita solo attraverso le basse temperature polari. In una sorta di museo dell’ibernazione, gli uomini hanno la possibilità di osservare questi esseri mostruosi dall’esterno, come se il ghiaccio tenesse isolato il terrore,  lasciando agli uomini il tempo di riflettere sul da farsi. Ma il terrore non è facile da gestire ed è proprio per questo motivo, che dal nulla, dalle viscere della terra, si manifestano esseri mai visti, mostri tenutisi lontani dalla superficie, come quelle angosce profonde che con forza cerchiamo di respingere nelle pareti più interne dell’anima.

‘Alle montagne della Follia’, può essere considerato un libro da interpretare perché, quella lovcraftiana, è una mitologia particolare che mesce al concreto la fantasia delle angosce. Il ghiaccio o meglio l’acqua, ritornano sempre in tutti i romanzi dello scrittore, come simboli di purificazione ed accettazione. L’acqua è il tramite del mutamento, la sede dei miti e di Chtulu, il mostro marino dal quale lo stesso Lovecraft, sembra non essere riuscito a liberarsi. Ogni suo romanzo porta con se il marchio di Chtulu e della sua natura extraterrestre. Nelle Montagne della follia, l’Altro viene identificato con caratteri oscuri e come qualcosa di cui si deve diffidare anche se per secoli non ha mai fatto del male all’uomo restando celato sotto chilometri di ghiaccio.

Ed è proprio questa paura infondata di un attacco dall’esterno che fomenta “il male” di Lovecraft, il quale si estende ad un male cosmico che non lascia spazio a margini di ripresa, non pone rimedi e le decisioni vengono lasciate agli istinti di autodistruzione e smantellamento dell’io.

I viaggi all’interno di questo “corpo del male”, portano il lettore ad una riflessione diversa e angosciante: ciò che posso provocare a me stesso, deriva dunque solo dal desiderio di annullarmi nel male cosmico? Ed è per questo che Lovecraft tenta di denunciare l’inevitabilità del catastrofico ammutinamento dell’uomo, il quale cerca a tutti i costi di bendare i propri sensi assuefacendosi ai suoi effetti devastanti.  Ed è così che il male cosmico si estende agli esseri viventi, i quali, inerti e paralizzati dal terrore, smettono di condurre le loro vite liberamente lasciandosi trascinare sulla riva del disfattismo dal male di vivere.