Io penso che sia molta umiltà essere scrittore. Lo vedo come fu in mio padre, ch’era maniscalco e scriveva tragedie, e non considerava il suo scrivere tragedie di più del suo ferrare cavalli.
Dedizione, impegno, sacrificio. Questo è soprattutto il mestiere dello scrittore: non cedere all’ispirazione momentanea e scomposta che spinge l’anima a mettersi su carta, mostrandosi nuda, caleidoscopica e indifesa, ma forgiare quella materia prima, esplosiva e informe, esplorandola, rivisitandola da altre angolazioni, tagliandola dove necessario, per dare alla luce un prodotto dai connotati definiti, che pur affondando le radici in un moto interiore, mostri al mondo il suo profilo migliore. Insomma: scrivere non è soltanto talento. Dietro il lavoro di ogni scrittore deve esserci un’ideologia, una verità – seppur tutta personale – da comunicare, di cui rendere partecipe il lettore.
Elio Vittorini (1908-1966) può dirsi maestro per eccellenza di quest’arte, tutta sviscerante, della scrittura: nato alla periferia dell’Italia che conta, in una Sicilia post-borbonica povera e malsana, Elio trascorre la sua infanzia in viaggio per le lande desolate e aride dell’isola – paesaggi che ritorneranno nelle sue descrizioni letterarie – seguendo il lavoro del padre ferroviere. Elio risente subito dell’oppressione soffocante della sua terra natia: viaggiare è la sua prima passione, quella che più volte lo spingerà a scappare di casa, salire su un treno e dirigersi verso ignote destinazioni. L’ultima fuga non lo vedrà più fare ritorno: sedicenne scappa in Friuli Venezia Giulia dove trova lavoro come contabile. Il desiderio di evasione, una volta realizzato, fa nascere nell’animo avventuriero del giovane Elio nuove esigenze: la fuga porta con sé la necessità della scrittura. Si trasferisce a Firenze, città dei suoi sogni, dove inizia quella che sarà la sua carriera di letterato, editore e traduttore, come correttore di bozze alla “Nazione”.
A quest’epoca risalgono i suoi primi scritti, articoli e racconti, pubblicati grazie all’intercessione dell’amico Curzio Malaparte. L’Italia intanto naviga nelle acque infide del Fascismo: quel senso di oppressione che Vittorini tanto bene conosce, avendolo sperimentato nella sua Sicilia, si ripresenta sottoforma politica, nelle sembianze di un regime che si fa sempre più censorio nei confronti dell’arte, della letteratura, e in generale della libera espressione di idee. Il giovane Elio ha una mente aperta, votata alla scoperta e alla conoscenza: il provincialismo della cultura italiana lo disgusta, e ancor più lo disgusta un regime politico che quel provincialismo lo preserva come finto patriottismo, chiudendosi negli spazi angusti della propria realtà nazionale e rifiutando l’apertura europeista. Ma Vittorini non si piega alle esigenze del Fascismo, anzi, lo contrasta attivamente: inizia a collaborare con la rivista “Solaria”, che in quegli anni rappresenta uno dei baluardi culturali di più forte opposizione alle idee mussoliniane, con quei suoi obiettivi “poco patriottici” di aprire le porte alle influenze letterarie europee, o addirittura transoceaniche.
L’esperienza di “Solaria” – con cui, a puntate, Vittorini pubblica il suo primo romanzo, Il Garofano rosso – ha i suoi frutti sulla mente plasmabile del giovane artista, che è un vulcano in eruzione: inizia a interessarsi alla letteratura anglosassone, legge Poe, Lawrence, Defoe, e inizia a studiare l’inglese per diventarne traduttore, mestiere che gli permise di sopravvivere negli anni Trenta, quando fu costretto da un’intossicazione da piombo ad abbandonare il lavoro da correttore di bozze, e prima che Bompiani gli offrisse un incarico editoriale. Come editore e curatore Vittorini fa scelte molto particolari: ai classici della letteratura italiana preferisce un criticato e ancor poco conosciuto Italo Svevo, che considera un acuto osservatore della società contemporanea e uno scrittore innovativo. Quando negli anni Cinquanta cura la collana “I Gettoni” per Einaudi inserisce Calvino e Fenoglio, rifiutando “Il Gattopardo”. Elio Vittorini ha un’idea ben precisa della letteratura che conta: in un marasma socio-politico i classici non portano più la pace interiore. L’anima ha bisogno di rispecchiamenti più adeguati, che solo scrittori controversi e anticonformisti riescono a dare. La letteratura, lungi dall’essere un tentacolo della politica, deve anzi rendersene indipendente, dando voce ai conflitti interiori dell’essere umano e alla sua difficoltà a vivere in un mondo che lo calpesta, riconoscendone sempre meno le esigenze di realizzazione della sua natura. Questa idea sarà alla base della fondazione del “Politecnico”, rivista letteraria edita da Einaudi e prematuramente chiusa (1945-1947) proprio per la linea di estrema apertura scelta da Vittorini, che entrerà in conflitto con le esigenze politiche dei leader comunisti Alicata e Togliatti, e spingerà Vittorini ad abbandonare il partito.
Negli anni successivi Vittorini continuò a lavorare per Einaudi, collaborando con articoli e saggi a diverse riviste e portando a termine la stesura di Erica e i suoi fratelli (1956), interrotta allo scoppio della rivolta spagnola contro Franco (1936), in cui Vittorini appoggiò i repubblicani. Incompiuta resterà invece la sua ultima opera, Le città del mondo, che sarà pubblicata postuma. Elio Vittorini morirà a 58 anni per un tumore allo stomaco: lasciando un grande vuoto nella letteratura, ma con il grande merito di aver allargato la visione italiana all’innovazione e all’incontro con culture – e letterature – altre. O almeno, di averci provato.