Se fossimo serpenti indubbiamente gennaio sarebbe il nostro “mese di muta”, il mese del cambiamento. Quante sono le promesse ed i propositi che giuriamo di rispettare? Senz’altro troppi, la maggior parte destinati a perdersi con lo scorrere dei giorni e delle pagine del calendario. Tante le rinunce che ci proponiamo di mettere in atto: meno cibo, meno sigarette, meno tempo sprecato. Oggi io invece vorrei provare ad agire diversamente, prendere una cosa del passato e portarla nel nuovo anno con me. Un incontro che mi ha cambiata, che ha cambiato il corso forse della mia stessa vita, rileggere delle vecchie pagine che mi hanno segnata e farle entrare così di diritto nel diario dei prossimi 365 giorni.
La nostalgia e la speranza, facce contrapposte della stessa medaglia, sono i due volti di “Nessuno scrive al colonnello” di Gabriel Garcia Marquez; la storia che più ho amato dello scrittore che più ho amato. Il vecchio colonnello, che ha partecipato alla guerra civile con Aureliano Buendia, noto agli amanti dello scrittore sudamericano, attende da molti anni la pensione che gli spetta di diritto, una remunerazione che non arriva mai, a dispetto della paziente attesa. L’uomo, nonostante l’ostilità della moglie, con i pochi soldi che possiede nutre un gallo, con la speranza di farne uno spietato animale da combattimento. Stoico o ingenuo non lo si potrebbe decidere in modo definitivo, a meno di non schierarsi dalla parte di una visione manichea del mondo, difficile da perseguire per chiunque abbia fatto del dubbio la propria chiave di lettura della realtà. Inusuale nel panorama della produzione letteraria di Marquez, questo libro è scevro del realismo magico che ha fatto della sua scrittura qualcosa di sempre riconoscibile, tuttavia la penna resta inconfondibile. Quasi maschere i due sposi, opposti a tal punto tra loro, da poter essere l’espressione dell’intera razza umana; illuso e sognatore uno, pragmatica e pessimista l’altra. L’immobilità ha paradossalmente una tale forza dirompente da aver lasciato molti lettori spiazzati; coloro che abituati a leggere appassionatamente “Cent’anni di solitudine”, la cui trama strabordante necessita un approccio attivo del fruitore, in questo libro dove nulla pare accadere, si sono forse sentiti persi, orfani di mille nomi e mille avvenimenti. Io qui ho visto la stessa grandezza che mi parve riconoscere in “Racconto di un naufrago”. Un uomo, il mare ed un gabbiano quella volta, un colonnello una moglie ed un gallo questa. Con questi pochi elementi il racconto della desolazione, della frustrazione, dell’anima incorruttibile di un uomo che conserva intatta la sua dignità mentre sparge becchime, così come prima faceva con gli ordini ai suoi uomini, di contro una donna che a quell’animale torcerebbe il collo. Nessun lieto fine né colpo di scena, un sospiro involontario è quel che ci resta.
Romanzo lungo o racconto breve, è un libro cattivo questo, ferisce e fa male. L’orgoglio di un uomo è più grande e vero della realtà stessa. Senza tralasciare l’infinita ammirazione per chi riesce in una manciata di pagine a delineare fino nel profondo delle personalità, e con uno spaccato breve descrivere il senso di un’intera esistenza. Tenerci incollati alle pagine con tre personaggi, uno dei quali non può dire più di un chicchirichì.
Mi ha cambiato la vita questo libro, mi ha insegnato cos’è un cantastorie e, a me che ero poco più di una ragazzina, ha mostrato cosa vuol dire essere sconfitti senza essere piegati. Porterò nel mio 2012 questa frase:
“L’illusione non si mangia”, disse la donna. “Non si mangia, ma alimenta” ribatté il colonnello.
La vita può tentare di metterci in ginocchio, saremo noi a decidere se da quella posizione cominciare una supplica o guardarla negli occhi e, senza mai abbassare lo sguardo, rimetterci in piedi.