Guardando il telegiornale, difronte a notizie riguardanti capimafia, o delinquenti di pari risma e peso, mi viene spontaneo pormi una domanda. Può il potere, la brama dello stesso, la volontà di avere nelle proprie mani la vita d’altri, trasformare gli esseri umani in bestie? Perché di certo di questo si tratta, il potere che diventa male, la convinzione che la vita altrui nulla valga, e che gli uomini comuni siano poco più che insetti da schiacciare. Accettare di vivere in squallidi ripostigli, murati vivi, per sempre. Lo stesso fascino che il male, la perversione, esercitano su di noi che godiamo dell’aria non troppo pulita e della luce del sole, e che pure storciamo il naso e sentiamo la coscienza gridare, senza poi riuscire a cambiare canale guardando l’ennesima trasmissione su omicidi, criminali e sangue. Fiumi di sangue. “Homo homini lupus” diceva Hobbes. Lo stato di natura pregiuridico, in cui ognuno è carnefice dell’altro, può essere superato solo attraverso il rispetto delle regole di convivenza civile che ci consentono d’opporci al summum malum, la morte violenta. La prima pietra non la posso lanciare, vorrei poterlo fare, ma non posso. Non mi appassionano casi di cronaca, plastici e ricostruzioni di omicidi tra parenti tuttavia, lo confesso, delle storie di serial killer, il potere deviato misto al sangue, non posso farne a meno. Resto imbambolata di fronte allo schermo o alle pagine di un libro che ne racconta crimini e nefandezze, come speravo sarebbe accaduto stavolta.
“La contessa nera” è un romanzo di Rebecca Johns, una biofiction sulla vita di Erzsébet Báthory, conosciuta come la contessa sanguinaria, donna realmente vissuta in Ungheria a cavallo tra il 1500 ed il 1600. Da bambina, la nostra non eroina, assiste all’uccisione pubblica e spettacolare di uno zingaro, reo di aver venduto la figlia agli odiati turchi, fatto che più che sconvolgerla pare far nascere in lei un tratto nuovo della personalità. Costretta al matrimonio giovanissima, lascia la famiglia per recarsi presso l’abitazione della suocera e del futuro coniuge, il quale non pare mostrare interesse per lei. Dopo molti anni di indifferenza una servetta, amante del marito della nobildonna, colpevole di essersi vantata di avere non solo i favori dell’adultero, ma di essere perfino destinata a diventare la di lui nuova moglie, viene punita in maniera cruenta da Erzsébet. Questo episodio avvicina per la prima volta gli sposi, lui pare affascinato dal lato sadico della moglie, l’amore tra loro nasce dalla crudeltà condivisa. È una donna possessiva ed ossessionata questa Erzsébet, non tollera il minimo tradimento nelle sue proprietà, si tratti dell’invasione del letto dell’amato, o di un furtarello in cucina. Rimasta vedova si sente sola ed isolata, senza il conforto delle figlie femmine e dall’amato unico erede maschio, affidato alle cure d’un tutore. Alla fine la delazione del suo ultimo concubino, dei cognati e del padre spirituale delle sue proprietà, in seguito alle voci ormai insostenibili circa la sparizione di decine e decine di serve, la vedranno costretta ad essere reclusa a vita tra le mura d’una torre.
Lei, una donna sola che cercava solo difendere il suo ruolo, costretta a morire un giorno alla volta senza luce, aria, amore.
Questo pare suggerire Rebecca Johns, che fosse solo una donna che voleva difendere la sua posizione. Ma dico, siamo pazzi? Erzsébet Báthory uccise un numero imprecisato di domestiche, compreso tra 100 e 300, secondo alcuni addirittura più di 600. Torturò, seviziò, ammazzò giovani donne senza scrupolo, pare alcune per immergersi nel sangue ringiovanente, secondo lei, delle stesse. Appassionata di stregoneria e magia nera si autoelesse signora delle vite di tutte coloro che lavorarono per lei. La scrittrice vorrebbe che noi provassimo pena per questa donna bella e malata, la prima serial killer donna della storia. Che pena è mai possibile provare per un mostro, che uccise per sopraffazione e vendetta, perché minacciata nel prestigio?
Non voglio dire certo che sia un libro scritto male, non lo è, tuttavia che gran peccato, trasforma un caso rarissimo al mondo in un’accozzaglia di banalità. Perché questo amore malato tra i coniugi è nato proprio in seguito alle sopraffazioni di lei sulle donne al suo servizio? Quando il controllo, nella mente malata della donna, è diventato più importante dell’aria e del sole? Potere, fascinazione del male, gusto nella sofferenza altrui, controllo come espressione di una devianza, ecco tutte le occasioni mancate di questo romanzo.
Il lupo è a cuccia dentro ognuno di noi, ulula di tanto in tanto, ricordiamoci di dare da mangiare alla bestia, con qualche piccola soddisfazione che la ammansisca e ci allontani forse dalla via della santità. Non sia mai che sia la bestia a mangiare noi.