In una breve intervista Garcìa Màrquez, con poche e brevi battute, ha aperto un sentiero che porta diritto al luogo da cui vengono fuori le sue storie.
All’origine, dice, non c’è mai un’idea astratta, ma un’immagine a cui se ne aggiungono altre come le incrostazioni che si formano su una barca. Senza queste suggestioni fantasmatiche, lui il racconto non riesce a buttarlo giù.
Ancora più importante è la seconda affermazione. Il premio nobel pensa che il suo stile non abbia nulla di magico, ma che appartenga al realismo puro. Piuttosto è la realtà a essere misteriosa con le sue stratificazioni di senso e la scrittura come forma di rappresentazione deve farsene carico.
(L’intervista si può ascoltare su YouTube all’indirizzo www.youtube.com/watch?v=cxSGRPKu39s).
Questa intervista mi ha ricordato un racconto scritto nell’agosto del 1981 e che si chiama La Santa. Fa parte della raccolta dei Dodici racconti raminghi.
Il protagonista della storia è Margarito Duarte, colombiano e andino. A diciotto anni si sposa, ma la moglie muore mentre partorisce la prima e unica figlia. Anche la figlia muore a sette anni per una febbre maligna.
Passano gli anni e accade che nel paese si decide di aprire un nuovo cimitero nel quale saranno trasferiti i cadaveri di quello vecchio. Anche a Margarito Duarte tocca l’ingrato compito di esumare le sue salme. Il corpo della moglie è in avanzato stato di decomposizione, ma quello della bambina è in perfetto stato di conservazione al punto che appena aperta la bara “si era sentito il profumo delle rose fresche con cui l’avevano sepolta”. L’evento ha del miracoloso. Da ogni parte dello stato arrivano uomini e donne per pregare davanti alla santa. Anche il vescovo è convinto che c’è del soprannaturale in questa vicenda al punto da spingere Margarito Duarte a recarsi a Roma per avviare pratiche di canonizzazione, ed è così che l’andino sbarca nella città eterna in compagnia di una valigia che assomiglia alla custodia di un violoncello e che in realtà conserva le spoglie della figlia.
Da qui iniziano le peregrinazioni di Margarito Duarte. Vent’anni durano le fatiche dell’uomo. I pontefici si succedono, ma la santa è sempre lì che aspetta.
Màrquez questo racconto lo scrive con l’obiettività di un resoconto giornalistico o di una autobiografia. Il narratore racconta in prima persona attraverso un lungo flashback. Tutto appare verosimile. La città, la pensione in cui Margarito Duarte trova sistemazione, il tenore Rafael Riberto Silva, la proprietaria della pensione Maria Bella, la domestica zia Antonietta, la trattoria di Trastevere in cui si mangia e si canta. Tutto credibile, tranne Margarito che se ne va in giro con la sua valigia e il suo macabro contenuto e che mostra senza remore, provocando stupore, paura o anche sacra venerazione.
In un passo de La Santa il narratore scopre le sue carte. Siamo nella pensione. Maria Bella legge agli ospiti i quotidiani per abituarli al lessico italiano.
“Uno di quei giorni raccontò, a proposito della santa, che nella città di Palermo c’era un enorme museo con i cadaveri incorrotti di uomini, donne e bambini, e persino vari vescovi, dissotterrati da uno stesso cimitero dei cappuccini. La notizia inquietò tanto Margarito, che non ebbe un attimo di pace finché non ci recammo a Palermo”.
Il luogo di cui si parla è la Cripta dei Cappuccini. Non so se Màrquez sia mai stato a Palermo o alla Cripta dei Cappuccini. Se ci fosse stato, però, si sarebbe trovato al centro di una coreografia surreale simile alle “danze della morte” di cui è ricca l’iconografia occidentale. Sarebbe sceso nelle viscere della terra e avrebbe percorso lunghi corridoi. Alle pareti avrebbe visto file di cadaveri, vestiti dei loro abiti migliori e divisi per classi sociali. Avrebbe incontrato prima i notai, poi i medici e infine gli avvocati con addosso le loro migliori redingote.
Certamente sarebbe impallidito innanzi alla piccola Rosalia Lombardo, nata a Palermo nel 1918 e ivi deceduta nel 1920. Il suo corpo, racchiuso in una teca, è in perfetto stato di conservazione al punto che la bambina è stata denominata “la bella addormentata”.
Se tutto ciò fosse accaduto, avremmo sotto mano “l’immagine” incardinata nella fantasia e poi elaborata attraverso la scrittura de La Santa.
Ma tutto ciò altro non è che un’ipotesi.
Màrquez, attraverso l’intervista con cui ho aperto questo articolo, ci ha parlato di un luogo magico, la fantasia, che sovrintende alla logica della scrittura. Di questo spazio si sono interessati in molti, ma le definizioni che ne sono state date sono sempre carenti.
L’unica cosa da dire è che il processo di creazione artistica è il luogo dove la logica è alimentata da ciò che logico non è.
Chiudo, citando ciò che Vincenzo Cerami diceva a proposito della fantasia dello scrittore: «Non è del tutto sbagliato pensare agli spiriti evocati dall’aldilà. L’aldilà nel nostro caso è lo spazio della fantasia, il fumoso riquadro in cui si vagheggiano storie, si inventano personaggi, situazioni più o meno improbabili, e dove si diventa spesso protagonisti di sogni a occhi aperti. È il più realistico dei palcoscenici, anche se vediamo noi stessi volare, o uccidere, o morire. In quello spazio lo scrittore crede a tutto ciò che succede».