Un’opera prima subito omaggiata di una riduzione cinematografica. Il libro “L’aiuto”, della esordiente Kathryn Stockett, è uscito anche in pellicola. Forse, anzi probabilmente, sarà stato scorciato, alterato, snaturato, forse magari no. Intanto, godiamocene la lettura. E’ il racconto di due mondi che, nell’America del profondo sud, agli inizi degli anni ’60, crescono e corrono paralleli, ma che la forza degli eventi costringerà ad incontrarsi.
La segregazione razziale regola la vita degli abitanti di Jackson, Mississippi: prescrizioni a dir poco paradossali impongono di tenere separati ospedali, sepolture, sale da biliardo, persino i gabinetti.
Ma, altrettanto paradossalmente, i figli dei bianchi crescono nelle mani e nella cura delle donne nere che vanno a servizio. Tra le loro attenzioni amorevoli si sviluppa un essere destinato in futuro a dibattersi tra il ricordo nostalgico di quell’affetto ricevuto da bambino, e le severe norme che impongono una distanza innaturale.
Skeeter è una bianca figlia di possidenti terrieri; è cresciuta amando incondizionatamente Constantine, la nera a servizio della casa. Lei ne ha in qualche modo forgiato il carattere indipendente, facendo emergere una personalità autonoma rispetto alla visione tradizionale della donna, il cui unico scopo accreditato in quel contesto è quello di diventare moglie e madre.
Il dolore più grande è stato non averla più trovata al suo ritorno dall’università, il mistero di una scomparsa, che nessuno vuole chiarire.
Per Aibileen le carte della vita si sono scombinate con la morte del figlio, un dolore che l’ha prostrata fino al limite dell’autodistruzione e da cui è risalita grazie alle attenzioni dell’amica Minny.
Le due donne non potrebbero essere più diverse: così come Aibileen è accorta, discreta, consapevole della posizione che occupa, in quanto donna nera costretta al lavoro manuale presso le case dei bianchi, Minny è invece istintiva, verace, incapace di tenere per sé le proprie opinioni, il che le rende difficile mantenere i posti di lavoro.
Il corso ordinario dell’esistenza di queste tre donne, fatto per la prima di renitenti concessioni ad una madre ansiosa di vederla sistemata convenientemente, per la seconda di umiliazioni e contemporaneamente di amore per la piccola Mae Mobly, trascurata figlia dei suoi datori di lavoro, e per la terza di intemperanze verbali, ma anche di sottomissione al proprio violento compagno, il corso dicevo delle loro vite, cambia.
Le ambizioni di scrittura di Skeeter convergono su di un progetto tanto temerario quanto pericoloso: raccogliere in un libro le testimonianze delle donne di colore a servizio, le vite di queste donne, all’interno dei contesti familiari dei bianchi, viste dalla loro prospettiva, dall’angolo dei loro sentimenti, senza filtri, senza pregiudizi; dare voce, finalmente, ad una categoria fino a quel momento inascoltata, ma il cui nucleo emotivo pulsa di un battito vitale degno di considerazione.
Il progetto inizialmente si scontra con la paura di perdere il posto di lavoro, di essere oggetto di azioni violente ma poi la forza degli avvenimenti mette in moto una macchina inarrestabile di confessioni. Man mano che la reticenza iniziale viene superata, la confessione diventa un fiume, l’esigenza di raccontare, di far sentire finalmente la propria voce, si impossessa di queste donne, le inonda di dignità, le rende “visibili”. Pur consapevoli delle possibili, devastanti conseguenze, tornare indietro è ormai impossibile, il motore della loro storia personale si è messo in moto, così come anche quello della Storia del paese avanza e spinge per l’abolizione del segregazionismo.
Il libro è in generale una storia d’indipendenza, non solo per la gente di colore, ma anche per la protagonista bianca, che riesce finalmente ad affrancarsi dal ruolo predeterminato impostole dalla famiglia ed a sostenere le proprie scelte con la forza di una rinnovata convinzione.
Ma è anche una testimonianza di amore, amore coltivato e celato, impossibile da esprimere da entrambe le parti, amore e dedizione malati di un male sociale, che internamente li corrode. L’autrice lascia che a raccontare siano direttamente le tre protagoniste e l’espediente narrativo si spinge fino al punto di adattare il linguaggio alla condizione culturale dell’io narrante, con esiti di verosimiglianza molto efficaci, che rendono vivido ogni ripiegamento dell’anima e ancor più il microcosmo sociale che ruota attorno alle tre donne.
Mi auguro che la rappresentazione cinematografica sia altrettanto valida.