La mano le tremava, come non accadeva da tempo ormai, tanto da renderle impossibile qualunque movimento. Era impietrita, spaventata e stanca. Voleva solo andar via, voleva alzarsi da quella scrivania, lasciar lì libri e pensieri ed andare in giro, tra la gente, per respirare aria nuova e lasciarsi alle spalle tutto ciò che da settimane le impediva di dormire. Era una piccola battaglia, ma sentiva il bisogno di vincerla. O la sua mente o il suo tremore ansioso e asfissiante. Il Dottor S. piombò improvvisamente sul tavolo con un salto di quelli che raramente gli riuscivano, lei sobbalzò dalla sedia e con uno scatto repentino riuscì ad evitare una caduta che ad occhio e croce le sarebbe costata almeno una o due costole. Si girò e cercò con lo sguardo quel maledetto gatto che a sua volta cercò con lo sguardo la ciotola dei croccantini. – E c’è anche chi dice che i gatti siano stupidi! – pensò ad alta voce Mercédès. Si rimise in ordine e dopo aver sfamato il gatto si recò in camera da letto e si guardò allo specchio – oh mio Dio – esclamò – è tardi. L’orologio appeso alla parete alle sue spalle si rifletteva nello specchio. Le cinque e un quarto. Corse in bagno, prese lo spazzolino e lavò velocemente i denti, prese una molla dal cassetto e legò i capelli alla meno peggio, per il trucco non c’era tempo. Con una rincorsa scivolò dritta di nuovo in camera da letto e si sfilò la tuta, prese un jeans dall’armadio e la maglietta poggiata sul letto, quella carina, da cui ormai faticava a staccarsi. Brutt’affare i ricordi. Infilò gli stivali neri ormai da buttare tanto erano consumati e ritornò in cucina, salutò il Dottor S. e si avviò verso l’uscio della porta. Si fermò. Tornò indietro e prese la borsa appesa alla sedia in cucina. Ora poteva abbandonare quel posto opprimente.
L’appuntamento era alle cinque e mezza in Via Mozart, all’uscita della metro. Impiegò esattamente 13 minuti per arrivarci, somigliava ormai ad una gazza trasportata dal vento quando andava in bici. Correva si, ma in maniera prudente. Dopotutto Marsiglia è una piccola città, con poche auto e poco traffico. In fondo se fosse scesa in orario non sarebbe stato neanche necessario correre. Ma questa è un’altra storia (quella del suo perenne ritardo, s’intende). Accostò la bici ad una transenna e la legò con la catena. Tirò via la borsa dal cesto e si avviò verso la metro.
I capelli di Valentine erano color oro, folti e luminosi, bellissimi. Lei era bellissima. Gambe lunghe, vita sottile, occhi vivi come il fuoco e un sorriso furbo. Quel giorno indossava un jeans dalle mille sfumature di blu, un cardigan grigio che nascondeva le sue forme e delle ballerine rosse come quelle di Dorothy ne “Il mago di Oz”. Si guardava intorno, sembrava stesse cercando qualcuno. No, non aspettava l’amica Mercédès. No, lei aveva proprio l’aria di chi cerca qualcuno, non di chi l’aspetta. Il suo sguardo si fermò all’improvviso. Era rivolto verso qualcosa o solo perso nel vuoto? Restò così per qualche minuto. Poi abbassò il volto e prese a cercare qualcosa in borsa. Ne tirò fuori una piccola Nikon, una macchina fotografica che aveva sottratto alla sorella Eloise poco prima di uscire di casa. Quella settimana in piazza Luzin c’èra il festival della fotografia più importante dell’anno, artisti di tutto il mondo esponevano la loro opere più famose, tutti scatti di diversi viaggi: cammini religiosi, villaggi nel deserto, foreste pluviali e misteriose terre oltreoceano. La piazza era gremita, volti curiosi, bambini in corsa, coppie anziane che disegnavano forti amori, ragazzine in cerca del proprio lui, donne sole, uomini persi, tutti ad ammirare ricordi di altri. Ricordi nostalgici e presenti.
Mercédès si avvicinò a Valentine che sembrò quasi sorpresa nel vederla. Il suo sguardo era cupo, il volto stanco e gli occhi gonfi. Aveva pianto. Mercèdès capì. La guardò e senza dire una parola le accarezzò i capelli dorati e la tirò a sé, stringendola e abbracciandola così forte da farle sentire di nuovo il calore percorrerle il corpo. L’incontro tra i loro cuori fu interrotto da una strana melodia, entrambe si voltarono per cercare di capire da dove provenisse. Il brusio delle persone presenti alla mostra era fastidioso come un rumore di sottofondo che ti entra nella testa e non ti fa pensare, ma quel brusio incessante non riusciva a coprire il suono di quella melodia da cui entrambe erano attratte. Pochi metri più avanti un ragazzo era lì col suo cavalletto e la sua tela. Dipingeva. Aveva dei pantaloni neri e una t-shirt con il volto di un uomo barbuto e una scritta in russo: raskolnik. Fumava nervosamente con una mano e con l’altra teneva un pennello, sporco, intriso di colori e di fantasie. Non appena si accorse della presenza delle due giovani donne mise subito via una piccola scatola, che teneva lì, poggiata accanto allo sgabello su cui era seduto e continuò con fare annoiato a dar vita alle sue opere.
In quel preciso istante la melodia cessò. Non si udiva altro che il suono sfocato di voci e rumori.
Mercédès, da sempre la più attenta e vispa delle due, prese Valentine per la mano ed iniziò a correre in direzione del ragazzo che, impassibile, pur avendo notato il gesto, fece finta di nulla. Appena giunte dinanzi agli occhi verdi e semichiusi del giovane, non poterono fare altro che notare le tele poggiate alla colonna di marmo, punto di ritrovo ormai di molti artisti. In lui c’era qualcosa di strano, trasmetteva un senso di inquietudine, di colpevolezza, di amarezza. Prese un quadro e lo porse a Valentine – tu compirai un lungo viaggio, sarai ferita e tradita da molti, ma alla fine troverai la tua pace – , la ragazza lo guardò e prese la tela, come ammaliata dalle parole del giovane. Mercédès fece per aprir bocca e cominciare a parlare, quando si ritrovò anch’essa tra le mani una tela, stavolta più grande. – tu t’innamorerai di uomo che ti porterà lontana da casa e ti troverai a lottare per trovare alla fine un’unica persona fidata -.
Le due ragazze s’impietrirono. Rimasero lì immobili a fissare quel ragazzo dallo sguardo astratto e dall’aria cupa. Il giovane sorrise. Mercédès guardò l’amica come per chiederle di svegliarla da quello stato di trans in cui si trovava. Sentì un colpo al braccio, la sua tela le scivolò dalle mani. Una signora l’aveva urtata. – Quella tremenda borsa viola – pensò Mercédès. Si abbassò per raccogliere il quadro e fu come se solo in quel momento riuscì a “vederlo” realmente. Un isolotto, una prigione, il mare in tempesta. Colori freddi, scuri, illuminati solo da un bianco tenue, riflesso della luna. Prese la tela e si alzò. – Valentine ma hai visto qui? – disse cercando gli occhi dell’amica. La trovò invece a guardare il suo di quadro. La richiamò – Ehi, Valentine… -, la ragazza scosse la testa e finalmente alzò lo sguardo. Era come se avesse gli occhi fissi su qualcosa, ma davanti a lei non c’era nulla. Non c’era nulla. – Dov’è finito? – chiese Mercédès, – dov’è andato? – Il piccolo artista dismesso e misterioso era sparito. Si voltarono, non c’era nulla. Lo cercarono tra la gente. Non c’era nulla. Ritornarono dinanzi alla colonna. E fu così che all’orecchio di Mercédès bussò di nuovo quella melodia, quella melodia che le aveva portate a lui. Valentine si spaventò. – Andiamo via, non voglio restare qui un minuto di più – disse gettando il quadro a terra. Si voltò e cominciò a camminare verso la piazza. Mercédès si aggiustò la borsa sulla spalla, mise il suo quadro sotto il braccio e prese a camminare, quando si accorse di una piccola scatola ai suoi piedi. La fissò. Era rossa, consumata, sembrava un piccolo portagioie da viaggio, di quelli che si usavano un tempo. La prese e presa da un improvviso impulso l’aprì. Urlò, urlò così forte da attirare l’attenzione delle persone presenti nel giro di almeno 200 metri. Lanciò la scatola nel vuoto e scappò. Via. Lontano da quel luogo incantato.
La scatola cadde lì in strada, dal suo interno vi uscirono tre ragni, piccoli, neri. Quasi schivando passanti, rotolarono verso i bordi del marciapiede, uno dietro l’altro, poi si fermarono e con un “salto” si gettarono in un buco, uno di quelli invisibili all’occhio umano, in cui nascondi desideri e paure.