Tutti lo conoscono come Re del Gotico. Alcuni ne apprezzano anche la satira sferzante. Pochi sanno della sua vena da infallibile, severissimo critico letterario. Chi era veramente Edgar Allan Poe? Credo che, se fosse ancora tra noi, il Maestro dell’horror preferirebbe definirsi semplicemente un pazzo. Non un pazzo come tutti gli altri, ma pur sempre un pazzo. Un pazzo che, invece di fuggire spaurito dinanzi alla propria follia le va incontro con un sorriso beffardo e insolente, abbracciandola con tutta la sua essenza, accettandola come compagna di vita e scegliendo di camminarle fianco a fianco come suo pari.
Mi hanno chiamato folle; ma non è ancora chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dell’intelletto, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dell’intelletto in generale”.
E non sarebbe nemmeno la prima volta che dall’oscura unione tra genialità e pazzia ha origine un parto artisticamente epico; ma la sottile linea di demarcazione che divide Edgar Allan Poe da qualunque altro artista sregolato, e che ne fa un genio senza precedenti, è la totale assenza di paura nei confronti del tanto temuto baratro della follia. Edgar Allan Poe non aveva paura, nemmeno di se stesso. O forse aveva paura di tutto; forse la sua più grande paura fu quella della paura stessa. Quando tutto si teme, ne deriva che non si teme niente: temerario, egli sceglie allora di abbandonarsi ai suoi terrori, in maniera totalizzante, senza remore né pentimenti, lasciandosi invadere dalle immagini orrorifiche e inquietanti che esalano a piccoli sbuffi direttamente dai bacini ribollenti dell’inconscio. Solo così si spiega quel senso di voluttà intrinseca, che sempre si ricava dalla vittoria su se stessi, e che permea ovunque i suoi racconti di terrore.
Edgar Allan Poe amava l’horror; riusciva a percepire l’impercettibile, immaginare l’inimmaginabile, accettare l’inaccettabile. Dentro la sua testa, prima ancora che sulla carta, quest’ultima solo una mera via di evacuazione di quella fiamma viva che gli si agitava in corpo. Che ancora oggi conferisce un valore inestimabile alla sua produzione letteraria, e un carattere di inimitabilità al suo stile inconfondibile.
Immaginifico, visionario, figlio di un’America che sta ancora percorrendo il faticoso cammino della propria definizione identitaria nazionale, Edgar Poe nasce a Boston (1809) in un freddo giorno di gennaio, da genitori attori girovaghi. La loro prematura morte lo consegnerà, a soli due anni, nelle calde braccia di una famiglia di mercanti, dai quali erediterà il suo secondo cognome. Allan. Ma l’accogliente calore di un focolare affettuoso e benestante non riuscirà a dissipare la noce di gelo che abita il suo petto, forse un residuo di quel freddo ancestrale della nascita, che si condisce dell’amaro sapore dell’abbandono; la ferrea educazione ricevuta in Inghilterra – fortemente voluta da un padre adottivo autoritario con cui il ribelle Edgar ebbe sempre un rapporto conflittuale – non farà che aumentare ulteriormente la sua solitudine, sfibrando, forse già allora in maniera irreversibile, il suo fragile Io. Il ritorno in Usa fu un’esplosione di vizio e sregolatezza: debiti di gioco, amori e amorazzi culminati nel lutto per la morte della madre di un suo compagno di studi di cui si era follemente invaghito, sfociarono in un primo, non del tutto fallimentare, tentativo poetico – a quegli anni risale la pubblicazione del suo Tamerlano e altre poesie (1827) – e nella, stavolta totalmente fallimentare, scelta di arruolarsi all’Accademia militare di West Point – in un momentaneo quanto fasullo slancio di sentimentalismo patriottico – da cui fu espulso per indisciplina.
Alcuni anni dopo, New York lo attrasse al suo seno misterioso e ammaliante con la vaga promessa di trasformarlo in uno scrittore: un sogno che Edgar inseguì e raggiunse, nonostante, o forse proprio grazie a, un’angosciosa depressione che non smise mai di tormentarlo, ma da cui la sua immaginazione mortifera si nutrì a sazietà. Il matrimonio con la cugina Virginia, appena tredicenne, gli regalò forse qualche attimo di serenità, per rigettarlo poco dopo in pasto ai suoi fantasmi: la morte di lei per tubercolosi lo spinse sempre più a fondo sulla via dell’alcolismo, che probabilmente fu anche causa della sua morte, avvenuta tuttavia in circostanze che rimangono ancora oggi non chiarite. A me piace pensare che Edgar si sia consegnato spontaneamente ai suoi aguzzini: quei demoni che per tutta la vita lo torturarono, ma che allo stesso tempo lo resero grande.