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La satira politica 2000 anni fa: l’ “Apokolokyntosis” di Seneca

Non è stato solo un rilevante uomo politico, il precettore e consigliere dell’imperatore Nerone. Non solo il saggio filosofo delle Epistulae ad Lucilium, non solo lo scienziato delle Naturales quaestiones.

Seneca, uno dei nomi più ingombranti della storia dell’intero Occidente, lega la sua fama anche ad un’altra opera, certo non di grande respiro, ma certamente rilevante nella sua produzione e portatrice di un fascino, diremmo, tutto particolare: si tratta dell’Apokolokyntosis, che oggi conosciamo con questo titolo greco ricavato da un umanista del XVI secolo, ma tramandato nei codici medioevali in lingua latina con il nome di Ludus de morte Claudii.

L’importanza filologica dell’opera? Appartenente al genere letterario delle satire menippee, l’Apokolokyntosis è, di fatto, l’unica della sua categoria ad essere giunta a noi pressochè integralmente. L’occasione storica? La morte dell’imperatore Claudio, avvenuta nel 54 d. C., che dovrebbe essere verosimilmente anche l’anno di composizione. Fin qui tutto normale. Ma è il contentuto dell’opera a suscitare curiosità ed interesse. L’Apokolokyntosis è una delle più irriverenti satire ad personam che siano mai state concepite. Lo stesso titolo in lingua greca è quanto mai esplicativo: si parla della deificazione di una kolokynte, ossia di una zucca. Dunque di uno zuccone, uno stupido: e tale era la fama di cui godeva il princeps Claudio, predecessore di Nerone. Nel suo principato tanti omicidi sul groppone, ma soprattutto una considerazione davvero scarsa delle sue capacità intellettive. Eppure, nonostante ciò, il Senato dichiara la divinizzazione dell’imperatore subito dopo la sua morte.

Ma immediate sono le reazione di sbigottimento misto ad ironia che l’evento scatena a corte e nell’opinione pubblica.

Seneca compone dunque l’opera con un palese disegno satirico-parodistico che tocca, però, non solo il fatto in sè. Quella del celebre filosofo è una parodia del genere epico-celebratico, che si rende manifesta anche nella ripresa, per così dire, “rovesciata” di proemi e singole formule.

Il concilio degli dei, che deve decidere sulla divinizzazione di Claudio, si trova subito in imbarazzo: alla fine, è Mercurio a trascinare per il collo l’ex imperatore dal cielo agli inferi. La famosa “catabasi” rivive così in un contesto del tutto diverso. Il condannato trova una schiera infernale ad accoglierlo: sono omnes laeti, hilares (tutti felici e contenti) e cantano inni funebri al nuovo arrivato (chiaro riferimento alle laudes che Nerone, pur tra la generale ilarità, lesse in Senato all’atto della divinizzazione).

Claudio diviene schiavo di Caligola, suo poco amato predecessore, e poi, per mano di Eaco, giudice infernale, viene consegnato ad un liberto.

È questo l’ultimo atto di un’opera archetipica, che nella parodia e nella caricatura trova il suo principio ispiratore e la sua scintilla, proiettando nell’età classica una satira politica condita da uno straordinario valore letterario.