Che valore ha la verità? E se possiede un valore allora deve necessariamente possedere un prezzo, quale? Quante volte nel ferire qualcuno ci si trincera dietro il dito della sincerità, l’indice accusatore che fa da scudo ai giudizi più implacabili. Opinione e verità paiono essere sorelle, sebbene se ci discostassimo il meno possibile dal loro significato, dovremmo ammettere che non possono coesistere. La verità è scritta e immutabile, come può allora avere significato nel marasma delle nostre vite, viene da chiedersi.
Davide Longo pone tra le righe del suo “Ballata di un amore italiano” queste ed altre domande. Tra le righe e tra le note delle canzoni anni sessanta, che fanno da sottofondo ad un racconto breve che è denso come la vita.
C’è una coppia sulla pista, non sono più giovanissimi, ballano tenendosi stretti. Sono eleganti, si guardano innamorati, ripensano al passato. Una vita insieme. A guardarli sembrano perfetti, così persi l’uno negli occhi dell’altro. Una voce lambisce lei, Renata, le sussurra parole ad un orecchio, mentre lui, Checco, continua a danzare, le accarezza le gambe, le porta da bere. La voce è incalzante, parla in rima, dice la verità.
Quanti sono i segreti che custodiamo nell’arco di una vita, quante sono le cose che scegliamo di non dire, di non conoscere, di fingere di non sapere. Renata rivendica la sua “merda sotto il tappeto”, è quella che le ha consentito di tenere la sua vita al riparo dall’immondizia che avrebbe potuto travolgerla, che ha scelto di nascondere al mondo e spesso anche a se stessa. Ora quella voce vuole alzare quel tappeto di “Pandora”, la voce che ha nella testa, che chiede onestà nel raccontare ciò che è accaduto. I tradimenti, le bugie, le volgarità della vita. La coppia avvinghiata sulla pista non è il “vissero felici e contenti” d’una favola. Quello che dall’esterno pare un abbraccio appassionato può essere un modo per aggrapparsi e non cadere. Il controcanto racconta, Renata vacilla. Come un coro greco che fuori campo narra la tragedia. Non c’è collegialità però, il corifeo è solo e, tra gli attori danzanti, Renata è l’unica ad udirne il canto. È il fratello di lei che svela i retroscena dei ricordi appassionati degli sposi, un sorriso benevolo può mascherare più d’un urlo che squarci la realtà, lui lo sa. Un handicap mentale, un dono, consente a Savino di vedere più in profondità, di annusare il puzzo della menzogna. Fu rinchiuso per questo. Nessuno vuole gli si sbatta in pieno volto la propria meschinità. La coscienza lorda non può essere candeggiata, i panni sporchi non si lavano in famiglia, si infilano più in fondo negli armadi che si avrà cura di non aprire mai.
Davide Longo, insegnante, regista, autore di testi teatrali, porta sulla pagina dopo che sulla scena, la finzione di una vita mascherata che è essa stessa finzione. La scrittura è delicata, il gioco dei personaggi satellite, le cui vite si dipanano in un flash, non appesantisce ma “puntella” la narrazione. Nella postfazione l’autore segnala di aver scelto di non ricorrere al dialetto per il personaggio di Savino, cosa che invece aveva prediletto in teatro. L’uso della lingua italiana, piuttosto che del veneto impuro misto a vari altri dialetti del nord, come scelta di fruibilità per il lettore. Riporta poi alcuni passi dell’originale stesura. Peccato, dal confronto risulta che la voce di Savino ne perde molto in musicalità. Con qualche piccolo accorgimento, mediante l’eliminazione di parole completamente aliene per i non centro-settentrionali, avrebbe potuto mantenere la scelta originaria e la lettura, già piacevole, avrebbe guadagnato un valore aggiunto.
Le nostre vite, all’apparenza così diverse sembrano avere un comune denominatore. Abbiamo tutti della merda da nascondere sotto il tappeto.
“Dove c’è molta luce, l’ombra è più nera.” Johann Wolfgang von Goethe.