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La forza della scrittura al buio: il “Notturno”, quel D’Annunzio che non ti aspetti

Parlare anche solo di una singola opera di Gabriele D’Annunzio significa parlare di un mondo intero, quello della mente geniale che l’ha concepita.

E quella mente è appartenuta ad uno dei grandissimi della storia della letteratura italiana e non solo: poeta e prosatore, politico e militare, D’Annunzio ha vissuto nel bel mezzo di un’epoca cruciale. Nato poco tempo dopo l’Unità d’Italia e morto a ridosso dello scoppio della seconda guerra mondiale, è stato un personaggio amato, odiato e discusso, sempre al centro delle cronache, carismatico a tal punto da insidiare perfino la leadership di un certo Benito Mussolini, che a lui si ispirò in pose e atteggiamenti, rubandogli l’epiteto di Duce.

Nella sua sconfinata produzione, dalla prosa alla poesia al teatro, si intravede spesso il D’Annunzio uomo, quello spavaldo, sicuro di sè e narcisista fino all’inverosimile, pronto a sfidare il mondo e a cimentarsi nelle imprese più ardue. Da questo punto di vista, tra le tante opere, una fa eccezione: si tratta del Notturno, uno straordinario documento di prosa lirica che consegna alla storia un nuovo D’Annunzio, riflessivo, inquieto, dominato dall’angoscia, dal dolore e dall’ombra della morte.

Indiscusso il fascino di questo lavoro, dovuto già – e diremmo soprattutto – alla sua genesi. Siamo ai primi mesi del 1916: il poeta, durante una missione aerea nei cieli veneti, è costretto ad un atterraggio d’emergenza. La conseguente ferita all’occhio destro è grave, la colpa di D’Annunzio, invece, quella di non curarsi in tempo. Quando decide di farlo è troppo tardi: ha ormai perso l’occhio destro, mentre il sinistro, decisamente malandato, è costretto per parecchi mesi al riposo e all’oscurità totale. È in questo periodo, e nelle suddette condizioni, che nasce l’idea del Notturno, una vera e propria esplorazione al buio, che tocca le corde più nascoste del cuore dello scrittore.

D’Annunzio scrive la sua sofferta prosa di riflessione e ricordo su tantissimi piccoli cartigli, con l’ausilio e l’assistenza della figlia Renata (che egli chiama con il nome di Sirenetta).

La difficoltà non è nella prima riga, ma nella seconda e nelle seguenti. Allora mi venne nella memoria la maniera delle Sibille, che scrivevano la sentenza breve su le foglie disperse al vento. Sorrisi d’un sorriso che nessuno vide nell’ombra quando udii il suono della carta che la Sirenetta tagliava in liste per me, stesa sul tappeto della stanza attigua

Sono le suggestive parole di Gabriele D’Annunzio, che si concentra così sul senso della vita e della propria esperienza, fino a formare un volume che sarebbe stato pubblicato nel 1921. Il tema della morte è predominante: tra i fantasmi con cui il poeta deve fare i conti, ci sono soprattutto Giuseppe Miraglia – il pilota amico, compagno di tante avventure aeronautiche – e la madre, morta all’inizio del 1917. E poi tanti ricordi del passato ed un’approfondita riflessione sulla guerra, con la sua eredità di morte e distruzione. Come detto, l’uomo che traspare da questi appunti è molto diverso da quello che siamo stati abituati a conoscere.

Ma non hanno continuità gli episodi del Notturno, e in questo risiede il fascino dell’opera, che, nata nell’ombra, le ombre sembra cantare: la morte fa di D’Annunzio un cantore orfico, vivente tra i morti e morto tra i viventi.