Non la smetti mai?”
“Smettere cosa?”
“Di pensare.”
“Beh, no, è quello che sto cercando di spiegarti, infatti, se ci pensi, non è proprio possibile.”
“Invece si, quando dormi.”
“Ma quando dormi si sogna…”
“Devi fare come me, io non sogno mai, fa male alla salute.”
Perché, si sa, i sogni hanno degli effetti secondari. Soprattutto i sogni che si fanno da svegli. Chiamateli sogni a occhi aperti, fantasticherie. Proiezioni speranzose di un futuro auspicato, che quando si infrangono fanno tanto più male quanto più erano ambiziosi.
Gli effetti secondari dei sogni è una storia di sogni infranti, o meglio: la genesi di un sogno condiviso, innescato dall’incontro tra due anime affini ma che abitano corpi, menti e persone totalmente diverse. Lou Bertignac, tredicenne dall’intelligenza precoce, è vittima della sua stessa vita, che sente scorrerle accanto senza mai attraversarla davvero; No, adolescente senzatetto, figlia dell’emarginazione e della sofferenza, è in fuga da tutto e tutti, e prima ancora da se stessa. La vita le mette una di fronte all’altra, senza riserve: ne nasce un’amicizia viscerale, intensa, cementata da silenzi di calce e incerte confessioni, un’intesa primordiale che nessuna delle due riesce a spiegare nemmeno a se stessa.
Per un breve periodo la bambina saggia riuscirà a legare a sé l’adolescente immatura, in un gioco di specchi che riflette l’immagine fantasticata di un futuro migliore per entrambe. Lou si prende cura di No riversando su di lei tutto l’affetto che avrebbe voluto da sua madre, di cui si sente ingiustamente deprivata: l’ascolta senza fare domande, l’aiuta a trovare un lavoro. L’accompagna in un viaggio suicida contro i fantasmi della sua infanzia, alla ricerca della cocente, definitiva disillusione. No, coi suoi lunghi, imbronciati silenzi, coi suoi occhi che parlano raccontando un passato di abbandono e sconfinata tristezza, riesce a colmare i vuoti interiori di Lou. Diventa un’amica, la sorella perduta. L’alter ego in cui perdersi per ritrovarsi.
Poi, quando tutto sembra andare per il meglio, No fugge, risucchiata magneticamente dai suoi buchi neri, quei buchi che nemmeno l’amore incondizionato di Lou è riuscito a colmare. Lou si risveglia, sola, nuda di fronte a una realtà di profonda solitudine. La vita che avevano fantasticato insieme non si realizzerà mai. Le due anime affini si separano, infine, dopo aver condiviso un pezzo di strada. Eppure qualcosa nella vita di Lou è cambiato.
Il risveglio è traumatico, come per ogni sogno spezzato lascia l’amaro in bocca. Ma niente potrà cancellare quello che è accaduto frattanto: se è vero che i sogni fanno male quando non si realizzano, è anche vero che la vita umana non avrebbe senso senza il loro confortante ristoro. I sogni lasciano segni indelebili. Il tempo impiegato a tentare di realizzarli non è mai tempo sprecato. E gli effetti secondari dei sogni – e della vita vissuta sognando – non sono sempre collaterali. Anzi. Possono, talvolta, essere addirittura benefici.
Lo specchio della fantasia infantile si infrange, ma lascia spazio a un’immagine, forse meno piacevole, certo più veritiera, della realtà, con cui Lou, ora un po’ più adulta, deve imparare a fare i conti.
Delphine de Vigan ci ricorda, in questo romanzo raccontato con freschezza e ingenuità, che getta luce sulla controversa realtà adolescenziale fatta di insaziabili domande e cervellotici perché, quanto sia importante continuare a sognare, nonostante gli effetti secondari. Solo la vita potrà dare delle risposte, semplicemente nel lento, inesorabile suo progredire, lasciando sempre un segno tangibile del suo passaggio, un effetto secondario il cui significato sarà chiaro solo a posteriori, e solo a chi avrà la forza di andare avanti, il coraggio di vivere, e soprattutto la voglia di continuare a sognare.