Jean Racine era la tragedia nel teatro francese (e non solo) del Seicento. Con 9 tragedie e una sola commedia (andata male, volle sfidare Moliere sul suo terreno) al suo attivo, egli fu capace una volta per tutte di scacciare dalla scena quegli odiosi personaggi corneliani così impettiti e vanitosi nella loro tronfia dichiarazione di colpevolezza, eppure nel suo genio c’era qualcosa che non quadrava, qualcosa di sinistro che si aggirava nel più profondo della sua anima.
Ma chi era Jean Racine, e perché scriveva tragedie?
Orfano di entrambi i genitori già a pochi anni dalla nascita, egli si ritrovò a dover vivere nella gabbia dorata del convento di Port-Royal, sicuramente uno dei pochi posti sicuri al tempo di Luigi XIII, eppure avamposto delle idee gianseniste più estreme. L’uomo era visto come sporco, nato già peccatore dall’attimo del primo guaito e redimibile soltanto tramite la grazia di Dio, attraverso un atto di misericordia; in altre parole, era il Signore a sceglierti, e se non eri tra i prescelti, qualunque buona azione prima o poi ti avrebbe condotto all’inferno. Era la morte del libero arbitrio, era l’anarchia, era la ribellione degli spirito nobili al regime assolutistico, inaccettabile per il futuro Luigi XIV, che infatti fece radere al suolo Port-Royal, trasferendo altrove la salma di Racine che ivi desiderò avere sepoltura, con grade “rammarico” del Re.
All’epoca la città di Parigi era dotata di solo una o due sale teatrali, il resto delle compagnie (compresa quella di Moliere dei primi tempi) metteva in scena le proprie piece nelle sale della pallacorda, mentre i palchi erano inondati di fumo di candele di qualità scadente, il proscenio era all’altezza del viso del turbolento pubblico che assisteva in piedi alla rappresentazione, durante la quale gli attori erano costretti a caricare il tono per farsi intendere dai paganti. Questi ultimi, a loro volta, potevano pretendere di cambiare all’istante il dramma in scena con un altro, se il primo non andava a genio all’uditorio. Insomma una vera a propria fucina di idee immerse in un caos senza controllo, questo era il teatro del Seicento.
Eppure qui Racine operò il suo miracolo: con i suoi capolavori (Andromaca e Fedra su tutti), riuscì a capovolgere l’azione, rendendolo un mero strumento scenico; momento dedicato ai servi, i quali dovevano “sporcarsi le mani” correndo innanzi e addietro per compiere atti vuoti. Questo infatti è il senso del teatro raciniano: la parola di concretizza, lo sguardo rende colpevoli le vittime osservate dall’eroe tragico, ed entrambi, da quel momento, si macchiano del peccato originario giansenisticamente inteso. Vittima e carnefice, un nuovo universo tutto umano si trasforma in universo colpevole per giustificare l’ira di Dio; l’uomo assume la colpevolezza della divinità per lasciare quest’ultima intonsa, il peccato dell’eroe tragico sta nell’atto dello sguardo, nel desiderio concupiscente e nell’illusione di potersi calare per un attimo nell’universo reale del mondo.
Solo alla fine della sua carriera di tragediografo Racine scriverà, dopo essere stato nominato storiografo di corte ed un periodo di assenza dal palco di 11-12 anni, i suoi due drammi sacri: l’Ester e Atalia. Qui per la prima volta il Dio si mostra all’uomo in tutta la sua misericordia, lasciando a noi uomini una speranza di salvezza, ed è buffo notare che proprio gli unici due drammi a soggetto sacro sono in realtà i meno giansenisti della sua intera produzione.
Ironia della sorte, o dell’arbitrio.