Partigiano, come Poeta, è parola assoluta
Una frase breve, sei parole, un aforisma che racchiude uno scrittore e la sua produzione: Beppe Fenoglio, piemontese di Alba, si è ritagliato un angolino tutto suo nella letteratura italiana del Novecento.
Nato ad Alba nel 1922, morto a Torino nel 1963 – stroncato da un cancro ai polmoni – Fenoglio ha trascorso i suoi 41 anni di vita tra la politica, le armi e la letteratura, fondendole straordinariamente in una produzione scritta che ha un solo, costante e quanto mai potente filo conduttore: la Resistenza, quel fenomeno tutto italiano, moto spontaneo che trae immensa linfa dalle tragiche vicende di morte e sventura che la guerra voluta da Mussolini ha portato con sè.
A Beppe Fenoglio si suole spesso associare l’altro grande scrittore delle Langhe, Cesare Pavese, contemporaneo del primo e anch’egli protagonista dell’intensa produzione letteraria post-bellica. Eppure, quanta differenza tra i due nel carattere e nello stile di vita. Scontroso, riservato, lontano dalla società civile e culturale, Beppe Fenoglio è stato sempre mosso da un vero e proprio bisogno, quello di scrivere, un impegno che aveva profonde e segrete radici nella sua esistenza.
E per lui non è corretto parlare di Neorealismo, nonostante la coincidenza cronologica: non c’è esaltazione, non euforia, non celebrazione di valori positivi, della vittoria del “bene” contro in “male”. Allo scrittore interessa solo trasporre, nero su bianco, la propria esperienza di vita vissuta, facendo della Resistenza un valore assoluto.
Nella scrittura, come nella propria vita, non c’è stato spazio per altro.
Il partigiano Johnny, edito postumo da Einaudi nel 1968, porta con sè una delle più intricate quaestiones filologiche del XX secolo. Ideale proseguimento di un’altra grande opera di Fenoglio, Primavera di bellezza, l’opera lascia interrogativi mai risolti sul periodo di composizione (molti critici sostengono che Il partigiano Johnny abbia in questo senso preceduto Primavera di bellezza, edito da Garzanti nel 1959).
Ma al lettore questo interessa poco. Ciò che colpisce nel romanzo (oltre ad un uso frequente e molto particolare della lingua inglese) è la sua radicale negatività. Lungi dal voler essere una celebrazione, come già detto, Il partigiano Johnny testimonia solo la testarda resistenza umana nell’assurdità dell’esistenza. Il lessico corporale è quello di gran lunga dominante. La Storia – sia quella interna all’opera sia quella che governa l’universo – appare come una cinica successioni di morti. Anche Johnny, il protagonista, compie tutte le proprie azioni ben sapendo che presto arriverà anche il suo momento. Figura a metà tra l’autobiografico e l’astratto, egli sembra solo obbedire al proprio destino.
Johnny combatte. Crede ciecamente in quello che fa, ma nello stesso tempo non può fare a meno di rivelarne l’essenza di assurdità.
È stata, crediamo, la storia di tanti partigiani.