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Jane Austen: eroina della quotidianità

Penso di potermi vantare di essere la più illetterata e ignorante donna che mai osò diventare autrice.

Jane Austen non si discute: si ama, oppure si odia. La semplicità – quasi disarmante – dei temi trattati dai suoi romanzi non lascia spazio a nessun tipo di dietrologia, a nessuna dissertazione critica su quali siano stati gli intenti nascosti della scrittrice e a quali fossero i suoi giudizi sulla società dell’epoca.

Tutto ciò che bisogna sapere di Jane Austen – ma che non tutti i lettori sono in grado di cogliere – è proprio là, come una verità che ci sventola beffarda sotto il naso, tra le pagine dei suoi scritti. Eppure non è alla portata di tutti. È una verità discreta, aggraziata, come l’animo delle eroine che popolano i suoi romanzi. Mai volgare, non appariscente; una verità sussurrata, non urlata. Ci vuole un udito fine per sentirla echeggiare, e un animo sensibile, avvezzo alla percezione dei dettagli.

Perché è dei dettagli, quegli infinitesimali, insignificanti dettagli che riempiono la vita quotidiana, e talvolta – magicamente – cambiano il destino di tutta una vita, che si occupa l’intera opera di Jane Austen. Piacevoli rituali e abitudinarie monotonie, noie e piccole gioie casalinghe, fanciulleschi palpiti e adolescenziali sospiri, aspirazioni apparentemente futili e tutt’altro che lungimiranti, piccoli crolli esistenziali di mondi chiusi in se stessi, eppure inestimabilmente ricchi di vitalità.

Ampiamente criticata per l’assoluta mancanza di profondità storica dei suoi scritti e per la stereotipia delle storie raccontate, Jane Austen fu in verità una profonda, analitica osservatrice della realtà che la circondava: la ristretta cerchia della piccola nobiltà e media borghesia di campagna, da cui non si emancipò mai, e che pure si rivelò insospettatamente ricca di spunti narrativi per uno sguardo acuto come il suo, che sapeva guardare il mondo e raccontarlo con un incedere leggero, traboccante di ironia e arguzia.

Prima figlia femmina in una fratria di sei maschi, profondamente legata all’unica sorella minore, Cassandra, da cui si separò soltanto per brevi periodi in cui fiorì un intenso carteggio, oggi per la maggior parte andato distrutto, Jane Austen fu una rispettabilissima, innocua e brillante zitella: uno stereotipo, questo, che non vale nemmeno la pena di sfatare, tanto si addice a descrivere impeccabilmente l’indole della scrittrice. Nata (1775) a Steventon, piccolo villaggio dello Hampshire, figlia di un pastore anglicano, fu istruita prima a Oxford, poi alla Abbey School di Reading, per completare gli studi da autodidatta. Una scelta che non impedì, anzi probabilmente stimolò, l’emersione precoce del suo talento letterario: già a undici anni la piccola Jane si dedicava alla stesura di racconti e poesie – i suoi Juvenilia – dai toni a tratti gotici a tratti parodistici, come si usava nello stile dell’epoca, dedicati a familiari e conoscenti, da leggere insieme, come passatempo per allietare le serate in campagna. A ventun’anni Jane aveva già scritto il suo primo romanzo completo, Prime Impressioni, che il padre tentò di far pubblicare senza successo: bisognerà aspettare ben diciassette anni perché questo “figlio adorato”, come ella stessa lo chiamò, venga alla luce (1813) sotto il titolo di Orgoglio e Pregiudizio, capolavoro supremo per cui la Austen è tutt’oggi ricordata.

Furono gli anni “d’oro” della carriera letteraria di Jane Austen: nell’arco di cinque anni (1811-1816) scrisse e pubblicò sei romanzi, da Ragione e Sentimento (1811), a Mansfield Park (1814) a Emma (1815), fino all’ uscita postuma (1817) dei suoi ultimi lavori, Persuasione e L’abbazia di Northanger. Un periodo breve ma intenso, quello della sua produzione letteraria, che chissà per quanto ancora avrebbe potuto prolungarsi se il morbo di Addison non avesse strappato la nostra eroina alla vita all’età soli quarantun’anni.

Abbandonata l’idea di sposarsi molti anni prima, quando l’amore del giovane Tom Lefroy, nipote di alcuni vicini di casa, le era stato precluso da divieti socialmente imposti, Jane Austen non vivrà mai il lieto fine tanto auspicato per le sue eroine (se non attraverso la vita eterna che ha regalato loro): il matrimonio. E tuttavia forse proprio la scelta della solitudine si è rivelata proficua per l’esplosione di quella dote che Jane Austen già possedeva in maniera innata: la capacità di guardare ai dettagli, di trovare sorprendenti anche i più piccoli, effimeri particolari della vita quotidiana, così ingabbiata, com’era all’epoca, da prolisse consuetudini e asfissianti etichette.

Jane Austen ci ha lasciato un’eredità inestimabile, gettando uno sguardo arguto e mai banale, ma anzi ricco di ironia e perspicacia su un lato oscuro della società dell’epoca, quello di una femminilità pura e sensibile, ma allo stesso tempo coartata dalle rigide regole della corsa al matrimonio. Tutto questo senza bisogno di fare ideologia, né filosofica né politica, ma semplicemente raccontando stralci di vita osservata, più che vissuta, nel piccolo salotto di casa sua. Tanto che Virginia Woolf la soprannominò “la più perfetta artista tra le donne”, sottolineandone l’indole tipicamente femminile dell’attenzione alle sfumature, e G.H. Lewes, critico letterario, la fregiò del complimento di “sorella minore di Shakespeare” per l’empatica immediatezza con cui riusciva a cogliere dietro le convenzioni, e a trasmettere nel loro rispetto, grazie a dialoghi brevi e sferzanti, le caratteristiche di personalità e i sentimenti più profondi dei suoi personaggi, senza mai contravvenire alle regole del bon-ton e della conversazione.

I mondi di Jane Austen sono così paragonabili a veri e propri formicai, dove solo chi sa guardare può cogliere, dietro una calma apparente, il brulichio incessante di una realtà vivacissima e in costante fermento, che, briciola dopo briciola, mette da parte quanto necessario alla sua stessa sopravvivenza.

Come scrive Pietro Citati:

Dagli sguardi acutissimi della brunetta non si salva niente. Oppure si salva tutto, perché persino le più pesanti e rozze cretinerie diventano, appena giungono tra le sue mani, lievi, inverosimili, aeree, persino poetiche. E’ il miracolo che nessun lettore della Austen riuscirà mai a spiegare.

Un miracolo che, tutt’oggi, oserei dire che nessuno scrittore è mai stato ancora in grado di riprodurre.