È giunto il fin de’ lunghi dubbi, è giunto,
nobiluomini, il dì che statuito
fu a risolver da voi.
Parla il Doge ai Senatori della Repubblica di Venezia. Recitano così i primi versi della prima tragedia di Manzoni: è Il Conte di Carmagnola, a cui l’autore pone mano nel 1816. La prima edizione esce a Milano nel gennaio del 1820.
Siamo, dunque, in un momento storico e personale che precede la stesura dell’immortale capolavoro manzoniano, quei Promessi Sposi che avrebbero indissolubilmente legato il suo nome alla Storia.
E parlare della produzione minore, citando le grandi tragedie del Manzoni – Il Conte di Carmagnola, appunto, e l’Adelchi – appare paradossale, o quanto meno indicativo del più unico che raro successo di cui ha goduto il romanzo, a discapito delle tragedie stesse.
Fondamentale ai fini della comprensione della poetica manzoniana risulta la Prefazione, che, dedicata all’amico Claude Fauriel, illustra i cardini della concezione tragica dello scrittore. È una piccola rivoluzione quella attuata da Manzoni, che intende effettuare un taglio rispetto alla tradizione drammatica italiana, dominata (ancora in Alfieri, Monti e Foscolo) da ascendenze classicistiche. L’idea tragica del Manzoni rifiuta le tradizionali unità aristoteliche di tempo e spazio, cercando invece un fedele intreccio di quadri storici nel quale il pubblico possa trovare non una catarsi, una purificazione, bensì una coscienza civile che sappia nettamente distinguere il bene dal male e accetti i fatti storici come parte di un piano voluto dalla Provvidenza.
Per far questo, la straordinaria vena creativa dello scrittore milanese costruisce Il Conte di Carmagnola in cinque atti (in endecasillabi), inframmezzati dai cori (in decasillabi), che assurgono quasi a cantuccio lirico del poeta. Il coro, infatti, del tutto slegato dallo svolgimento dell’azione, costituisce uno spazio in cui Manzoni sembra parlare in prima persona: sono i momenti lirici e poetici più alti della tragedia, quelli in cui l’autore deplora in toni commoventi la guerra fratricida tra gli Stati italiani o invoca la forza del messaggio cristiano, l’unico in grado di riscattare gli uomini in Dio.
La storia è nota. Siamo nel XV secolo, protagonista è Francesco Bussone, Conte di Carmagnola, passato dal servizio dei Visconti di Milano a quello nemico della Repubblica di Venezia. Centro e snodo di tutta la vicenda è la battaglia di Maclodio (1427), vinta dalle schiere veneziane del Bussone, accusato però di tradimento e condannato a morte: il condottiero aveva liberato dei prigionieri milanesi, come era consuetudine dell’epoca. Tanto bastava, però, a confermare sospetti mai sopiti di un doppio gioco. Nella Prefazione, il Manzoni espone i fatti storici che sono al centro della sua tragedia e “salva” Francesco Bussone, da lui ritenuto innocente; in realtà, molti storiografi successivi sono stati concordi nel ritenere che così non era.
Ma questo non importa. La ricostruzione storica è la più fedele possibile dell’epoca, i versi sono melodiosi, i cori cantano poesia. Su tutto regna incontrastata la longa manus della Provvidenza.
Provate a chiamarla opera minore.