I cattivi non possono essere buoni giornalisti. Solo l’uomo buono cerca di comprendere gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi e le loro tragedie.
I cattivi non possono essere nemmeno buoni scrittori, aggiungerei io. E nel caso di Ryszard Kapuściński, dire l’uno è dire l’altro. Mi sono sempre chiesta quale – e dove – fosse la sottile linea di confine tra un giornalista e uno scrittore: dov’è la differenza? Forse nella discrepanza tra verosimiglianza e verità, tra oggettività e soggettività, tra realtà e fantasia; forse nella diversità degli stili, impersonale in un caso, intimista nell’altro? No. La vera differenza sta nell’avere o meno un anima: e Ryszard Kapuściński, bisogna dirlo, ha un’anima immensa, capace di guardare al mondo con la freschezza di un bambino e la saggezza di un vecchio, senza pregiudizi e tabù.
Testimone dei più imponenti cambiamenti del nostro tempo, dalla decolonizzazione dell’Africa – terra che amò profondamente, e a cui dedicò buona parte della sua vita e della sua attività giornalistica – alla caduta dell’URSS, dall’11 Settembre cileno alla rivoluzione iraniana degli anni Settanta, Ryszard Kapuściński (1932 – 2007) sintetizza a pieno – come professionista e come uomo – queste due facce di una stessa medaglia: la sua prosa, scarna ma elegante, fine ma diretta, scorre fluida e leggera attraverso guerre e rivoluzioni, tracciando ritratti e descrizioni indimenticabili, dall’incommensurabile valore, storico e letterario a un tempo. Quasi a ricordare che, in fondo, non esiste una demarcazione netta tra vita, storia e letteratura, e che l’una si rispecchia e attinge costantemente nell’altra.
Ryszard Kapuściński nasce a Pinsk, nell’attuale Bielorussia, all’epoca Polonia, settantanove anni fa. Il giornalismo è la sua vita. Se ne accorge quasi subito, appena diciassettenne; intanto completa gli studi di arte e storia all’università di Varsavia, dove la famiglia si è rifugiata a causa delle persecuzioni naziste prima, staliniste dopo, poi inizia (1959) a collaborare con l’agenzia polacca PAP come corrispondente dall’estero. Il suo sogno è l’Africa, continente “nero” e sconosciuto, selvaggio e misterioso. Ryszard vuole conoscerlo, prima di documentarlo. Non corre dietro allo scoop, come fanno tutti. Il suo sguardo si spinge oltre la catastrofe e i sensazionalismi, si insinua nella quotidianità di vita della gente comune. La osserva, la documenta. La racconta. In una parola: la rende immortale. A spingerlo è la smania di conoscere il mondo, per accorgersi poi che esso è inconoscibile nella sua interezza, e che nella vita non si finisce mai di imparare.
Più si conosce il mondo, più ci rendiamo conto della sua inconoscibilità e sconfinatezza: non tanto in senso spaziale, ma nel senso di una ricchezza culturale troppo vasta per poter essere conosciuta.
Una vastità che difficilmente può trovare posto nelle battute limitate di un articolo, e che inevitabilmente filtra, quasi per osmosi, tra le pagine di quaderni e diari che diventeranno veri e propri romanzi. Più volte candidato al Premio Nobel per la Letteratura, vincitore nel 2003 del Premio Grinzane e del Premio Príncipe de Asturias e insignito della laurea honoris causa in traduzione e mediazione culturale dall’Università di Udine, il successo arriva grazie a Negus (1983), definito da Newsweek uno dei migliori dieci libri dell’anno, cui segue (1982) Shah-in-shah, cronistoria di un anno in Iran all’epoca della caduta dello scia Reza Pahlavi, per poi raggiungere la consacrazione definitiva con Ebano (1998), una raccolta di considerazioni, episodi e incontri avvenuti durante i lunghi, faticosi, rischiosi viaggi in lungo e in largo per l’Africa.
Viaggiatore, esploratore e narratore, condannato per ben quattro volte alla fucilazione, sopravvissuto alla malaria, alla tubercolosi e alla sete del deserto, a sostenerlo in trenta lunghi anni di carriera e attraverso ben ventisette tra rivoluzioni e colpi di Stato, è proprio quella spinta, prorompente e irrimandabile, verso l’Altro: l’impersonalità del cronista è un’imposizione inutile, un vezzo non necessario. Ryszard Kapuściński è, e vuole restare, semplicemente un uomo, che condivide raccontando ciò che ha conosciuto, che mette in contatto un mondo (sconosciuto) con l’altra parte del mondo. Filantropo come pochi, umanista nel senso più profondo del termine, artista e mediatore tra culture, Ryszard Kapuściński è la personificazione letteraria del giornalismo: i suoi reportage vanno oltre la cronaca per diventare racconto di impressioni, emozioni e sensazioni che, seppure inevitabilmente filtrate dallo sguardo parziale di chi osserva e riferisce, restituiscono al lettore l’essenza delle culture e delle persone con cui entra in contatto. Un quadro particolareggiato, complesso, in una parola “umano”, della realtà, come solo un grande scrittore avrebbe saputo fare.