Il Maestro trasalì a quel fischio, ma non si voltò, e si mise a gesticolare con ancor maggiore inquietudine, sollevando un braccio al cielo come minacciando la città.
Michaill Bulgakov sapeva di essere un uomo col cuore colmo d’odio, e particolarmente abituato ad odiare. Il boicottaggio subito dalla Mosca letteraria, le calunnie dei giornali dell’epoca – neoborghese, reazionario, nemico del popolo – la sua carriera letteraria distrutta, il suo destino di escluso, “umiliato ed offeso”, la conseguente ripugnanza per la vita e il terrore delle facili uccisioni del regime staliniano lo hanno reso irascibile nei confronti dei suoi contemporanei, verso i quali nutriva sentimenti di rivalsa e di vendetta. Nel Maestro e Margherita non vi è alcuna forma di perdono per i peccati del mondo sovietico: ne il perdono che proviene dalla pietà, ne quello implicito nell’indifferenza. Persino dopo la morte, prima di lasciarsi condurre dal Diavolo verso la pace promessa, il Maestro fa tanta fatica a distogliere gli occhi da Mosca: durante la sosta sui Monti dei Passeri guarda a lungo la città ai suoi piedi gesticolando ed imprecando, lontano da Margherita e dai Cavalieri Infernali che lo attendono annoiati. Non lo distrae nemmeno il verso agghiacciante e potente di Behemoth.
Quest’odio suscita una sorta di compassione tanto profonda quanto lancinante ai lettori bulgakoviani, in quanto è sentimento ben noto, a lungo covato e dissimulato nella coscienza di ciascuno. Tutto l’odio che culmina nella scena finale del libro costituisce agli occhi del lettore sovietico uno sfociare liberatorio del proprio animo, una matassa rugginosa intrinseca al proprio cuore che si scioglie, senza mai renderlo esplicito o partecipe, senza confessarlo agli altri.
In letteratura l’odio diviene compiutamente tale quando non vi è più alcuna differenza tra ciò che un autore scrive per provocare e ciò che scrivendo egli scava nel profondo della sua vita interiore. L’odio diventa criterio stilistico, ed è polemica e poesia che coincidono. Nel Maestro e Margherita ciò avviene in modo estremo: Bulgakov scriveva in segreto, era comprensibile in fondo nei confronti del popolo russo, sapeva che nessuno mai avrebbe letto il suo libro, in quanto credeva che la materia trattata fosse incomprensibile e poco degna d’interesse, blasfema e pagana, ben sapendo che era l’unico modo per placare quel suo tormento, quella tempesta che dentro lo sconquassava, fatta di parole e di vendetta da vendere a caro prezzo ai suoi bersagli. Non vi è una sola persona, nemmeno una, della Mosca bulgakoviana con la quale ti fermeresti a parlare, così detestabili, meschine e volgari.
Riconducibile all’odio è anche l’asse strutturale del romanzo. Un odio intenso non può fare a meno di scindere il reale, generando una separazione e di essa essenzialmente costituita e alimentata: la struttura dell’opera è tutta imperniata sulla contrapposizione di due mondi separati, che invano cercano un punto d’incontro. Da un lato il mondo di Woland che ne è alfiere e anfitrione, e che da lui è sfigurato e generato, attraverso cui il mondo è libero di muoversi in ogni possibile epoca o passato, fino a manipolare le vicende di Jeshua e le sue decisioni; dall’altro lato il mondo di tutti quelli che rinunciano a tale follia, non la credono e non vogliono riconoscerla, disconoscendo quindi la realtà stessa, e che quando la intersecheranno ne rimarranno vittime, folli che interpretano la loro follia come un’illusione. Due mondi che non otterranno mai nessun tipo di conciliazione: dimorare in uno non si può se non abbandonando per sempre l’altro, ed è impossibile appartenere ad uno senza provare totale disprezzo per l’altro. Bulgakov fa di tutto per ammaliare il lettore dal mondo di Woland e di Jeshua, ma allo stesso modo lo trascina via da esso, solo per il gusto di ricondurlo a qualcosa che toccare non potrà. Un mondo si fa beffa dell’altro, lo domina servendosene come parte complementare di esso, e viceversa, rimanendo un rebus irrisolto.
Il loro confronto è un variopinto stallo, una partita che si conclude nel momento in cui inizia, e che non si può risolvere se non accantonando la scacchiera. Alla fine del romanzo, con reciproco sollievo, i due mondi si allontaneranno l’uno dall’altro, proseguendo ciascuno verso il proprio infinito, entrambi sconfitti e vittoriosi insieme, delegando al Maestro e Margherita la meritevole e profonda quintessenza di una delle più alte prove artistiche dell’900.