To Kairi
May your dreams come true… only if you want to J
Una volta, tanto tempo fa, la Luna non era il semplice e grosso pezzo di roccia grigia, deserta e bucherellata che è ora. Inoltre, non girava attorno al nostro pianeta, incantando poeti, lupi, romantiche ragazzine e tutto il genere di sempliciotti sognatori che ancora di notte alzano lo sguardo suggestionati dal suo luccichio, malinconico ricordo dei suoi fasti.
Era bensì la Terra a ruotarle attorno; ed edificato sopra i suoi crateri un tempo rigogliosi e lussureggianti di vegetazione esisteva un regno incantato, governato da una bianca Regina.
Era una Regina senza Re ma dai molti gatti, splendida a vedersi. Aveva maestosa ed elegante la figura, lattea la pelle, i capelli color platino come fili di seta ed il viso dai lineamenti così raffinati e sottili che parevano dipinti da un esperto miniatore, o scolpiti con mano gentile da un maestro dei bassorilievi.
Questa Regina viveva in un castello anch’esso bianco come l’avorio e dalle guglie appuntite come zanne di un lindo elefante. Regnava su tutti gli abitanti Lunari ed aveva molti devoti sudditi presso la sua corte; ma il più devoto e valoroso di tutti era un giovane venuto da lontano che le stava sempre accanto, accontentando ogni sua richiesta. Il suo passato era sconosciuto quanto quello della stessa sovrana: probabilmente non aveva fatto mai nulla di particolare, mentre di Lei si diceva avesse provato ogni cosa. Questo giovane distinto era da tutti chiamato Principe del Sole, benché mancasse di alcun titolo nobiliare riconosciuto, poiché era sempre allegro e dal suo corpo pareva sprigionare un intenso bagliore, soprattutto quando era al fianco della sua Regina.
Il suo sorriso era radioso come oro fuso, il suo abbraccio caldo e desiderabile quanto la luce del primo mattino e col suo fare pacato e conciliante metteva di buon umore i presenti.
Ma, ahimè, questo regno incantato, come tutte le cose create da uomini e dei, non era perfetto.
La Regina infatti, non si sa come, non si sa quando, nel corso della sua travagliata esistenza, aveva perso il suo cuore. I Lunari più anziani ricordavano un tempo in cui la regina era buona e generosa con tutti e il suo incedere aggraziato fra la popolazione, il suo sorriso dolce e comprensivo quale fiore che si schiude riuscivano a sciogliere i nodi nel petto persino dei più scontrosi e irsuti cittadini.
Al contrario, nessuno si ricordava più quand’Ella l’avesse perso: era semplicemente successo.
La causa era sconosciuta, o semplicemente taciuta così a lungo da venire anch’essa dimenticata: che si fosse punta con uno spillo fatato o avesse morso una mela avvelenata, la ragione si era ormai irrimediabilmente persa tra le pieghe del tempo.
Fatto sta che la Regina non era più dolce e generosa come in passato. Né era malvagia o crudele, a dire il vero: semplicemente aveva smesso di provare emozioni. E quando si perdono le emozioni, si perdono pure la gioia della vita e la consapevolezza del suo valore.
Così, l’avvenente sovrana non comprendeva né rispettava i sentimenti ed il dolore altrui.
Era incapace di capire i suoi sudditi o chiunque altro, se è per questo, e governava con freddo distacco, assecondando ogni suo capriccio, che la intratteneva giusto il tempo sufficiente per ordinarlo. Viveva in modo distaccato, come appartenesse ad una realtà parallela, rivolgendo a chi le stava attorno solo parole di comando e qualche aggraziato sbadiglio. Il suo sguardo non si soffermava mai su persone, animali, piante o paesaggi, ma pareva perso nel vuoto.
Il Principe del Sole all’inizio non ci fece neanche caso, tutto preso a servire e ad adorare la sua Regina. Per lui era normale essere comandato. Solo dopo un certo periodo si accorse di brillare un po’ meno del solito, di sentirsi un po’ meno felice; e che i sorrisi dei cortigiani erano sempre meno sorrisi e sempre più smorfie posticce, come uno strappo su un foglio di carta.
Un giorno, passando per caso senza essere visto dalle cucine, gli giunsero all’orecchio i discorsi di due domestici che si lamentavano dell’insensibilità della sovrana, a causa della perdita di quel organo tanto brutto quanto importante: infine, dovette scontrarsi con la realtà.
La Regina aveva perso il suo cuore e, continuando in questo modo, niente sarebbe più stato come prima. Niente era già come prima. Così, decise che era suo compito ritrovarlo o, in caso fosse impossibile reperire quello autentico, sostituirlo.
Si mise subito alla ricerca del cuore e, al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare in una favola, in breve tempo lo ritrovò. Com’è ovvio, non era più al suo posto: bensì giaceva abbandonato nella più piccola delle stanze segrete della Regina, a cui il Principe aveva libero accesso, ma che per rispetto alla sua sovrana non aveva mai visitato.
Era custodito all’interno di una piccola cupola di cristallo, sopra un piedistallo in stile corinzio, senza neppure un drappo steso sopra a nasconderlo. Il vetro della teca era tutto impolverato, segno che nessuno se ne curava più da molto tempo. Il cuore in passato doveva essere stato grande e pieno di vita, ma col tempo era diventato solo un pezzo di carne avvizzita.
Il Principe del Sole ci mise un attimo a capire che quel cuore era ormai perduto e privo di utilità. Ma dove era possibile trovarne uno che non fosse già impegnato? Nella sua breve vita di ragazzo non ne aveva mai incontrato alcuno sprovvisto di padrone.
Una sera però, guardando il lontano pianeta coperto dalla acque sorgere nel cielo ad orizzonte, pensò che forse quel posto remoto poteva nascondere almeno un cuore libero e pulsante, da poter donare alla sua Regina.
Al pensiero di allontanarsi così tanto e per chissà quanto da Lei quasi sentì mancare le forze, ma raccolse tutto il suo coraggio e prese la decisione di partire per questa missione: in caso contrario, che eroe sarebbe stato? Così, quella notte stessa si recò sprovvisto di bagagli alle pendici del picco più alto ed impervio della Luna, che a quel tempo si chiamava Monte Destino.
Scalando la superficie di roccia ed affrontando gelide raffiche di vento, finalmente giunse alla cima innevata, il corpo tremante per la fatica ed il freddo intenso. Da lì, utilizzando le energie rimaste spiccò un balzo nello spazio stellato e silenzioso in direzione della Terra.
Per un poco il viaggio fu piacevole: osservando stelle e pianeti lontani e rilassando gli arti mentre tratteneva il respiro, sì lasciò trasportare nello spazio aperto finché giunse a contatto dell’atmosfera. A quel punto, il suo corpo acquistò rapidamente velocità e prese fuoco: come una meteora impazzita, dopo alcuni drammatici istanti il povero ragazzo atterrò con un tonfo sonoro e scomposto su di una vasta piana sabbiosa. Quando si rialzò, tutto dolorante ma ancora intero, il suo aspetto era diverso. Il bagliore che lo avvolgeva si era affievolito ed opacizzato: ora si limitava ad un intermittente alone verdastro. Tutta la polvere e i detriti che lo ricoprivano fecero sentire il giovane Principe sporco fino al midollo, e strofinarsi con le mani il vestito bruciacchiato poco contribuì a farlo sentire meglio. Tuttavia, non si sentiva poi tanto abbattuto: dopotutto l’esito poteva essere ben peggiore!
Così, cominciò la sua ricerca vagabondando a caso come qualsiasi viandante improvvisato tra le vaste distese semidesertiche che si trovò davanti.
Dopo alcuni giorni di cammino, con la gola che gli ardeva per la mancanza d’acqua ed il sudore che gli scavava rivoli urticanti sulla pelle, avvistò in lontananza un insediamento umano.
Quando vi arrivò in prossimità, ormai strisciando per la fatica e la disidratazione, sbattendo le palpebre semichiuse notò che si trattava un piccolo villaggio composto di capanne di paglia.
Gli abitanti si aggiravano in sparuti gruppi al di fuori delle abitazioni, come piccole formiche spaventate dall’assenza di un compito; erano uomini minuti, dalle fattezze molto simili alle sue, ma dotati di una pelle scura che mai aveva osservato in precedenza. Sulla Luna neppure ci si abbronzava!
Il primo ad accorgersi di lui fu un bimbetto tutto pancia ma dalla gambe secche come stecchi che, lanciando in aria strani versi acuti, gli corse incontro impugnando un piccolo contenitore di terracotta.
Quando la piccola creatura glielo avvicinò alle labbra, il Principe si accorse che era pieno d’acqua: amara come il latte delle vacche Lunari e altrettanto puzzolente, ma pur sempre acqua.
Pochi sorsi bastarono a farlo sentire meglio. Con un colpetto della mano toccò la testa del bambino in segno di ringraziamento e rimase in silenzio, quasi si aspettasse di sentire le fusa.
Nel frattempo, altri abitanti del villaggio si erano avvicinati sbraitando e apostrofando il piccolo con voce aspra. Il giovane Lunare ignorava il significato delle loro parole, ma di certo dovevano essere poco piacevoli, dato che il bimbo esplose in lacrime; a quel punto, i suoi compaesani si irritarono ancora di più.
Il linguaggio dei gesti è universale, così infine il Principe riuscì a capire che il suo generoso soccorritore veniva accusato di aver sprecato in una volta sola tutte le risorse idriche del villaggio, ed attingere col suo pianto alle proprie riserve interne. Ben presto però gli abitanti del villaggio si calmarono, anche perché il bambino era figlio del defunto stregone, ancora molto rispettato.
Persero altresì interesse nei confronti del bizzarro straniero e ritornarono ad essere assorbiti dalle loro apparentemente vuote attività.
Il Principe allora illustrò al bambino le sue intenzioni di trovare un cuore nuovo di zecca, o almeno in buono stato. Non chiedetemi come fece: questo può accadere solo in una favola.
Il bimbo diede segno di aver inteso e fece capire che avrebbe potuto forse risolvere il suo problema, se lo straniero avesse risolto quello del villaggio. A sua volta, alternando gesti e capriole a vivaci schiocchi di lingua e suoni gutturali, spiegò la causa dell’agitazione dei compaesani: un vorace e malvagio essere aveva fatto la sua comparsa in quella zona prosciugando tutta l’acqua di laghi e fiumi ed attanagliando così il villaggio sotto i morsi della siccità. I migliori cacciatori del villaggio si erano dati all’inseguimento della bestia, ma il primo gruppo ne aveva perso le tracce ed il secondo non era più tornato; tuttavia alcune lievi impronte erano rimaste impresse nel terreno arido. Il Principe, motivato dalla possibile soluzione ai suoi problemi, riacquistò subito un po’ della luminosità perduta e si mise senza indugio a seguire le orme degli ultimi esploratori. Camminò per alcuni chilometri finché avvistò alcune lance mezzo sepolte dalla sabbia: le tracce dei cacciatori si perdevano di fronte ad una enorme roccia grigia. Il Principe si guardò attorno, ma non scorse ulteriori indizi o segni di vita nella savana desolata e spazzata dal vento. Così, rilassandosi un attimo dopo la lunga camminata, si appoggiò all’ombra del macigno per riprendere fiato. Sorpreso, ritirò le mani di scatto: la superficie della roccia era umida! Ma, soprattutto, non era affatto roccia: si trattava bensì del corpo della dannosa creatura che aveva inaridito la pianura e devastato il villaggio.
Si presentava a lui come un enorme palla di carne semitrasparente e rigonfia all’inverosimile, con zampe corte e tozze da pachiderma ed una breve coda appuntita. La testa a forma di uovo era dotata di buffe orecchie appuntite, grandi occhi rotondi ed inespressivi sprovvisti di ciglia ed una piccola proboscide. La bestia, nonostante l’aspetto, era tutt’altro che inoffensiva e tentò subito di aspirarlo con le sue narici, come doveva aver fatto con tutta l’acqua della zona e gli sventurati esploratori.
Ma il Principe si riprese in fretta dalla sorpresa e gli afferrò la proboscide, tirando con tutta la sua forza. Questo gesto bastò ad assicurargli la vittoria: lo strano essere, infatti, era pericoloso quanto delicato. Le unghie, che il giovane non tagliava da giorni a causa del suo viaggio, penetrarono in profondità nella delicata pelle espansa dall’acqua della creatura, provocandone una lesione. Come accade ad una piscina di gomma provvista di una falla, così dal lungo naso del mostro scaturì un potente getto d’acqua che si riversò sul terreno assetato. Man mano che l’acqua fuoriusciva dal suo corpo, la creatura andava rimpicciolendosi, finché non divenne della dimensione di un topo e fu trascinata via dai flutti che provenivano dalla sua stessa proboscide. In effetti, la quantità di liquido era tale da creare una specie di fiume che investì il nostro eroe; mantenendosi a galla come meglio poteva, il giovane Principe fu trasportato dalla corrente fin quasi al villaggio.
A quel punto il flusso d’acqua era stato riassorbito quasi completamente dal terreno, tornando a riempire i pozzi e rendendo la pianura nuovamente coltivabile. Gli abitanti accolsero lo straniero venuto dalla Luna con urla di giubilo, come un salvatore, e gli tributarono grandi onori.
Il Principe non ebbe nemmeno bisogno di chiedere l’unica cosa che desiderava davvero: il piccolo amico gli sorrise e senz’altri indugi prese due manciate di terra, divenuta fangosa e malleabile.
Con le sue abili manine modellò in breve un bel cuore d’argilla, né troppo grande, né troppo piccolo, ma proprio della giusta misura, lasciando un forellino in alto tra i ventricoli.
Quand’ebbe finito, prese un bel respiro e soffiò all’interno del foro, mentre piccole scintille e pagliuzze dorate volteggiavano fugaci davanti al suo viso: il cuore emise un improvviso bagliore e cominciò a palpitare.
Il Principe posò una mano sopra di esso: il nuovo organo era caldo e tremante come un pulcino raccolto dal nido. Capì che il piccolo aveva messo la sua stessa vita dentro al cuore; solo un briciolo, però, perché la vita di un bambino è molto lunga e forte.
Il bimbo chiuse quindi il forellino e tendendo le braccia consegnò il suo dono al nostro eroe, che sorridendo se lo strinse al petto.
Ripostolo con cura in una bisaccia di pelle fornitagli dai paesani riconoscenti, il giovane Lunare donò uno dei suoi abbracci, ora più luminosi e sereni che mai, al suo amico Terrestre, che lo ricambiò con un lampo vivace dei grandi occhi ed un timido sorriso.
Era tempo di tornare a casa. Il Principe si fece condurre dagli abitanti del villaggio sulla cima più alta della zona, che allora si chiamava Kilimangiaro – ed ancora si chiama così . Come aveva fatto all’andata, prese un bello slancio e saltò nello spazio aperto in direzione della Luna.
Uscire dall’atmosfera terrestre gli costò ulteriori ustioni; fortunatamente questa volta l’impatto all’arrivo fu meno violento, a causa della minore gravità della sua piccola ed argentea patria.
Rientrando a palazzo, vide la sagoma dell’algida sovrana seduta nel giardino: si pettinava i lunghi capelli con colpi rapidi e precisi di spazzola, quasi i suoi gesti fossero scanditi da un metronomo.
Allora portò una mano alla sacca… ma le sue dita afferrarono solo filamenti di cuoio stracciati.
Il forte calore subito nel viaggio doveva aver bruciato il misero involucro ed il cuore era ormai perso nello spazio, o forse bruciato anch’esso. Fare ritorno sulla Terra sarebbe stato inutile: anche trovando un contenitore più resistente, mai avrebbe avuto il coraggio di chiedere al suo piccolo amico il sacrificio di un solo altro giorno della sua vita. Sentiva altresì di non potersi presentare alla sovrana a mani vuote, senza rispettare la promessa che si era fatto. Nella mente e nell’animo del giovane Principe prese forma un pensiero, che divenne presto l’unica cosa da fare.
Così, si avvicinò alla sua Regina e, giuntole alle spalle, si chinò verso di lei e la strinse in un abbraccio, intrecciandole da dietro le braccia al petto e stringendole le mani con le sue, prima con dolcezza, poi con decisione. In quel gesto mise tutto il calore di cui era capace, tanto che gli sembrò di sciogliersi per l’intensità del suo sentimento. Poi, come da sua volontà, sentì il cuore abbandonarlo per passare a lei. Mentre i suoi battiti si affievolivano ed il suo petto diveniva vuoto, avvertiva le pulsazioni aumentare dentro i polsi dell’amata; persino la sua aura di luce, tornata da poco fulgida e dorata, veniva man mano trasferita. Appena ebbe finito, cadde a terra all’indietro, sull’erba verde intenso scintillante di rugiada. La Regina si alzò di scatto dalla sedia e si inginocchiò al suo fianco, passandogli un braccio dietro la schiena per sostenergli la testa: “Non dovevi farlo” disse semplicemente.
Ed il Principe, fissandola negli occhi cerulei, profondi come un crepaccio e brillanti come cristallo intagliato, le rispose con un filo di voce, ma con tono sereno:
“No. Non dovevo. Ma volevo farlo. Questo è il mio cuore e ne faccio ciò che voglio. Se voglio, me ne privo. Se lo desidero, lo dono. Ed io voglio donarlo a te, perché tu viva una vita intensa e felice. Perché la vita senza emozioni non ha significato, ed io desidero che la tua vita abbia un senso. Gioisci della tua esistenza: tocca, assapora, osserva, canta, danza; ridi soprattutto, che ridere mette allegria. E trovati un compagno, che la vita è troppo lunga per passarla tutta da soli. Noi due non siamo più nel futuro, ma saremo per sempre in quella parte di spazio e tempo, di sguardi e carezze che è stata la nostra storia. Io ti ho amato senza mai davvero capirti, mentre tu mi hai capito senza mai davvero amarmi. Mi amerai da morto suppongo, come si ama qualcuno che non c’è più, come si coltiva la memoria di qualcosa che non è mai veramente accaduto.
Ricordami teneramente, quando giungono rossastre le ombre della sera, ed una volta ogni tanto permetti a una lacrima di scivolare lungo il tuo viso.
Io sarò con te, in quella goccia, ti accarezzerò la guancia procurandoti un lieve solletico, scivolerò lungo il nobile profilo del tuo mento e cadendo sarò accolto e dissolto sul tuo seno. Quello sarà il nostro momento di incontro, fin quando apparterrai a questo mondo.
Ora vai, lasciami riposare… ho vissuto sempre solo, in fondo, e devo morire solo: questo è il mio destino. La terra sarà il mio ultimo giaciglio. Sono curioso di scoprire se riesco a catturare con gli occhi il riflesso dell’anima mentre esce con l’ultimo respiro dalla mia bocca. Goditi il mio cuore, e fanne buon uso”.
Da quel momento in poi, il Principe tacque. La Regina lo lasciò dormire il suo sonno eterno in quel prato, sotto le fronde degli alberi Lunari, mentre le emozioni rifluivano in lei come una cascata che risale la corrente; e visse con rinnovato spirito ed intensità ancora molto a lungo, mentre le rughe avanzavano con pudore e rispetto sul suo viso di perla, senza cancellare neppure un accenno del suo fascino e della sua regalità.
C’è chi racconta che mai si trovò un compagno; altri sostengono invece che ebbe mille uomini ancora al suo fianco: l’unica cosa certa è che ogni sera di luna nuova, mentre scendeva il lungo tramonto sul suo bel regno, la sovrana si ritirava nel suo giardino, all’ombra sempre più estesa dell’ulivo. Lì, seduta a terra sotto le sue chiome, dedicava una delle sue preziose lacrime, le uniche che perse mai, a quell’amore puro e stupido che si era sacrificato per lei.