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Concorso Bar quinta edizione

17/07/2011
Floriana TanzillobyFloriana Tanzillo
5 min read
Tags: chiusiFloriana Tanzillo raccontimortenoirocchipensieripersonaraccontiraccontosolitudinestoriastoriestradetempouomoviaggiovita
Concorso Bar quinta edizione

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29/03/2017


Chi ha l’occhio, trova quel che cerca anche a occhi chiusi.

Marcovaldo

Italo Calvino

Cari lettori,

siamo finalmente arrivati alla quinta edizione del nostro Bar. Questa volta vi chiedo di svelare un mistero, sarete pronti?

A chi non è mai capitato di sentirsi solo al mondo? Quando la vita ci sembra un’ostrica senza la sua perla. Chi di noi non ha mai provato quella sensazione di melanconia e stasi, mentre si era fermi ad osservare le stelle del Parnaso? Questo mese, stringete nelle vostre mani la vita di un uomo e con essa, la forbice delle Parche.

Chi si celerà dietro quella misteriosa presenza? In che posto sarà piombato il nostro protagonista? Riuscirà a cavarsela o andrà incontro a torture atroci e morte certa? A voi l’ardua sentenza, io sarò quì a deliziarmi della vostra fantasia.

Inserite pure il vostro finale nei commenti entro il 2 SETTEMBRE : non avete alcun limite di lunghezza. A nostro insindacabile giudizio potranno essere selezionati fino a 5 finali, in palio per ognuno di loro un libro a scelta dalla classifica dei top100 di IBS (trovate qui l’elenco).Siete pronti? Buona scrittura!


 


Una candela accesa si spegne. Il fuoco diventa fumo.

Gli occhi possono riempire tutti gli spazi vuoti di una vita: con loro una persona può comunicare il suo mondo, quello chiuso tra le scarpe a punta di un uomo dalla pelle riarsa, gli occhi di un anziano signore dai capelli bianchi, la barba ispida di un passante che si ferma a guardare una vetrina. Il fuoco sulla punta della sigaretta brucia e consuma l’aria intorno mentre una mano sfiora i capelli e la nuca, un movimento lieve del collo accompagna lo sguardo sulla punta dei ticchettii. Passi che portano in giro un corpo vuoto, triste d’essere solo, di camminare senza altri passi, senza i sorrisi di una mano gentile, spoglio di qualsiasi fuoco che lo tenga in vita, senza gambe forti che sostengano il peso di un cammino. L’ennesima delusione che travolge una vita, l’ennesimo treno passato senza agitare fazzoletti bianchi che portano profumo di donna.

Era un uomo triste Ben. Solitario come le vecchie stazioni di periferia, logoro come i sedili di un treno che ha visto troppe fermate corrervi di fianco, ma non vi è mai sceso.

Quella sera la luna era riflessa nell’acqua e le sue gambe la rincorrevano nel riflesso sfuggente, camminava sempre più veloce, come se il suo unico scopo fosse dissolvere quell’ultima speranza di non sentirsi solo, la gente d’intorno lo guardava stupefatta, i passanti lo deridevano, ed i bambini si giravano indicandolo col dito. Ma Ben era forte, e con un passo deciso saltò in una pozza d’acqua e lo specchio della luna si dissolse. Soddisfatto, alzò lo sguardo al cielo con aria trionfante e nell’atto d’abbassarla sembrò scorgere un mondo nuovo, quello che per altri era la routine quotidiana così, si rimise in piedi e s’accorse che alla sua destra c’erano tante tende colorate, profumi di cannella e zucchero filato, urla di gioia e pianti capricciosi. Mentre camminava scorse una giostra con i cavalli, di quelle che incatenano i bambini per ore e camminò lungo la staccionata di quel piccolo lunapark, cercando compagnia. Passò davanti alle giostre soffermandosi su una mamma intenta ad abbottonare la giacca ad un bambino: gli sistemò delicatamente la sciarpa intorno al collo e prima che l’atto potesse dirsi completo gli stampò un bacio sulla fronte e lo prese per mano. Ben li guardò allontanarsi e mentre si facevano più vicini, la donna gli regalò uno dei sorrisi più pieni che una faccia avesse mai contenuto.

Incuriosito da una strana musica, si avviò verso un tendone da circo, posto di fianco alla gabbia dell’unico leone presente nel raggio di chilometri. Ad ogni passo la musica sembrava essere sempre più forte e decisa, dura come roccia che rotola giù da un pendio. Avvicinandosi, la musica e la folla lo stordirono ed un passante goffo gli ficcò una spalla nel costato, borbottandogli di stare attento. Nell’atto di girarsi, Ben scorse una di quelle scatole in cui ci sono contenuti dei maghi a mezzo busto che rilasciano bigliettini come moniti per il futuro e poiché il suo futuro era quello che più gli premeva conoscere si frugò nelle tasche e inserì i pochi spiccioli che gli restavano nella macchina. Come per magia, il mago sembrò animarsi e biascicando poche parole, prima di spegnersi, si portò al viso il bigliettino e lesse:

“Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”

Restò a guardare quel foglietto ancora qualche secondo prima di metterlo in tasca, ma i tamburi cominciarono a battergli in petto e un ritmo forsennato si fece strada tra le sue membra, sembrò divampargli in viso un’eccitazione che lo faceva apparire goffo ed instabile, gli sembrava una cosa quasi impossibile da credere, ma quella musica era come un comando al suo cervello, un istinto dal quale avrebbe voluto scappare, ma continuava a corrergli intono. Si diresse verso quel suono, sempre più vicino, sempre di più, fino a sentire le mani bruciare dalla voglia di toccarlo: gli abiti divennero impedimento per i movimenti e si ritrovò così alle spalle di quel vecchio edificio, nel tendone di quel circo che aveva un’unica tigre, mentre da sola, su un cubo, una donna bellissima ballava col rosso del suo vestito. I suoi movimenti erano stimolazioni di parole insane, pensieri erotici, brividi bollenti: le mani di Ben cominciarono a battere e i piedi a pulsare nelle scarpe, ticchettando insanamente lungo i fianchi, piccole vibrazioni che gonfiarono le forme dei suoi pantaloni. La donna ballava sbattendo al vento le onde di quel vestito voluminoso e leggero che le accarezzava il seno prosperoso e gli occhi di ghiaccio, gitana sensuale, padrona del tempo immortale, immorale, velenoso serpente, vendicatrice assetata di sangue e progenie.

Il calore appannò la vista di Ben e il sudore gli grondò sulle maniche della camicia. Nonostante fosse inverno gli sembrava d’avere la febbre e di barcollare, e mentre tentò d’alzarsi una mano lo spinse: cadendo per un tempo che gli sembrò impregnato d’eterno, col viso verso il cielo guardò con gli occhi offuscati l’immagine sbiadita della luna.

Mentre cercava di aprire gli occhi, si accorse di non vedere nulla, per un attimo gli sembrò di essere divenuto cieco e cominciò a muovere lentamente le mani riuscendo a toccare solo l’umido di una pietra. Il puzzo di carne cruda e sangue rappreso lo fece rabbrividire e mentre con uno sforzo enorme cercava di rimettersi in piedi, i suoi occhi cominciarono ad abituarsi al buio, riuscendo a scorgere una piccola fessura dalla quale entrava una bieca luce riflessa. Non riusciva a capire cosa fosse successo, né tanto meno in che posto si trovasse, ma era certo di essere nei guai, nei guai fino al collo.

Strappato ai suoi pensieri da un rumore di ferro battuto con gran forza, vide aprirsi una porta e una figura in controluce apparirvi: d’istinto si portò le mani agli occhi e coprendoli per non ferirsi, riuscì a balbettare le uniche parole che sembravano avere un senso:

“Chi sei e cosa ci faccio io, qui?”

 

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