Homo homini lupus
Il celebre proverbio latino sembra calzare a pennello. Appare come un riassunto del tutto particolare di tutta una vicenda, quella narrata da Giovanni Verga nel secondo romanzo del ciclo dei Vinti, il Mastro-don Gesualdo.
Un’elaborazione lunga e faticosa sfocia infine nella pubblicazione, presso l’editore Treves di Milano. Siamo nel novembre del 1889.
Otto anni prima Verga si era consegnato alla storia con la prima tappa del ciclo, I Malavoglia. L’umile storia dei pescatori di Aci Trezza avrebbe ben presto conquistato un pubblico vastissimo. Adesso siamo al secondo step. Rimane, pur nella sua incompletezza, geniale l’invenzione dello scrittore catanese, che con i Vinti intende costruire un vero e proprio monumento ai deboli della società di fine Ottocento, agli sconfitti, i “vinti” appunto: un participio passato dallo straordinario potere mimetico.
Il progetto sarebbe fallito. L’analisi negativa della società contemporanea avrebbe visto compimento solo ne I Malavoglia e in Mastro-don Gesualdo (partendo dalla base della piramide sociale, questi romanzi costituiscono uno specchio dei mondi, rispettivamente, popolare e borghese). La cinica e spietata disamina avrebbe poi dovuto riguardare l’ambiente nobiliare, quello parlamentare e quello della più alta mondanità. Verga non riuscì a completare il ciclo, che si sarebbe arrestatato all’incipit della Duchessa di Leyra. Molto probabilmente, l’autore rinunciò anche perchè non trovò sprazzi di autenticità nella finzione e nell’ipocrisia, sempre più trionfanti man mano che si saliva nella piramide sociale.
“Mastro” e “don” sono le condanne di Gesualdo, un muratore di una cittadina nei pressi di Catania, divenuto, grazie al proprio lavoro, padrone di una discreta ricchezza economica, che gli consente di arrivare (seppure per vie traverse) allo stesso livello della nobiltà feudale. “Mastro” è quel che rimane del vecchio muratore, mentre l’appellativo “don”, riservato ai galantuomini, segna di fatto il suo ingresso nell’alta società.
Ma Gesualdo Motta è destinato a rimanere solo: odiato dal suo mondo d’origine, che lo vede come un traditore, e non riconosciuto dalla nobiltà di sangue, che lo considera un intruso.
Il protagonista rinuncia all’amore di Diodata, che rappresenta la stabilità e la purezza dei sentimenti semplici ed elementari, e decide di accettare il matrimonio con Bianca, appartenente ad una famiglia di nobili decaduti, compromessa, tra l’altro, in un ambiguo rapporto con il cugino Ninì. Il frutto di questo matrimonio, Isabella, sarà croce e delizia di Gesualdo, il quale non riuscirà mai ad instaurare un rapporto vero e sincero con la figlia: Isabella, presa solo dalle sue tormentate vicende sentimentali, nutrirà per il padre estraneità ed astio fino alla fine. Gesualdo muore a Palermo, nel palazzo della figlia (sposata al ricco Duca di Leyra). Solo, tra la servitù indifferente.
Il pessimismo di Verga è evidente. Il protagonista, che pure appare non facilmente decifrabile, risulta però, in definitiva, come l’estremo barlume di speranza e verità. Gesualdo rinnega, è vero, le sue radici; ma la sua scalata è onesta, i valori positivi non l’hanno mai abbandonato. In lui appare sempre un disperato bisogno di comunicare. Davanti a sè troverà sempre la più netta chiusura, il più assordante silenzio.
Definito il primo romanzo italiano dell’alienazione, Mastro-don Gesualdo testimonia l’impassibile realismo di Verga, che coincide purtroppo (e fa rima) con cinismo e pessimismo: nessun valore autentico è praticabile in un mondo volgare, nel quale domina il rancore dell’uomo verso ogni altro uomo. È la fine delle illusioni di uno dei più grandi talenti della letteratura italiana.