Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Sono tra i più noti endecasillabi della letteratura italiana. Due quartine, otto versi che contengono in nuce una filosofia di vita, certamente il cuore di un nucleo tematico che si sviluppa in una splendida raccolta poetica, divisa in cinque sezioni: Movimenti, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi e ombre e Riviere.
Siamo in pieni anni ’20 del XX secolo. In Italia Benito Mussolini consolida, mese dopo mese, la neo-nata dittatura fascista.
L’autore della prima di numerose sillogi di poesie è, per molti, “Il Classico” del Novecento: Eugenio Montale, classe 1896, genovese DOC, intelletto sopraffino, personalità di prestigio assoluto nella società italiana dal fascismo agli albori degli anni ’80.
Ossi di seppia è il libro attraverso il quale Montale si impone sul palcoscenico nazionale ed internazionale, con quella sua voce e quel timbro che più in là diverranno inconfondibili. Lirismo e concretezza, il pensiero e l’oggetto, si fondono inestricabilmente, uniti dal collante di una linguaggio di alta densità intellettuale e sentimentale, a tratti astratto, ma pur sempre ancorato ad un mondo concreto.
Il paesaggio che domina la raccolta è quello marino e solare della Liguria, la terra del poeta, portata alla luce attraverso una poesia che la vivifica, ma che nello stesso tempo ne trasmette un’immagine arida, secca, scarna. Proprio come gli “ossi di seppia”. Montale ha scelto con estrema consapevolezza questa straordinaria immagine, simbolo della condizione umana, metafora di un atteggiamento nei confronti del mondo che si riassume tout court in quella negatività che ha trovato, nell’arco del XX secolo, tanti altri illustri esponenti, sia in poesia che in prosa, da Leopardi a Proust, da Thomas Mann a Svevo e Pirandello.
L’immersione nell’incontaminato paesaggio marino delle Cinque Terre appare come l’unica via di riscatto per il poeta, ultimo barlume di speranza. Ma il riscontro non sempre è positivo, e spesso la fusione panica con la natura si risolve in una partecipazione, forse ancora più profonda, all’aridità del paesaggio e all’osso di seppia. A nulla vale anche il ritorno al passato, all’infanzia e all’adolescenza.
Insieme a Spesso il male di vivere ho incontrato, un’altro celebre componimento poetico sintetizza la visione montaliana: Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, che può offrire al lettore soltanto quache storta sillaba e secca come un ramo. Il messaggio è inequivocabile: la poesia può dire solo ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Il tema della caduta delle illusioni non è una novità. Nuova è senza dubbio la sua trasposizione in versi, all’interno del più grande progetto poetico che il Novecento italiano abbia conosciuto. Ad Eugenio Montale va riconosciuto lo sforzo titanico di aver difeso la resistenza della razionalità civile in un mondo dominato dall’irrazionalità, sempre con quell’equilibrio, squisitamente classico, tra una cieca fiducia nel progresso e un nichilismo sterile e fine a se stesso.
Ha visto come pochi, sempre al passo con i tempi, dentro l’uomo e il mondo moderno.