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Fantasia e razionalità nella trilogia di Calvino: “Il visconte dimezzato”, “Il barone rampante” e “Il cavaliere inesistente”

Non è facile parlare di Italo Calvino. Non è facile perché la sua figura occupa una posizione del tutto particolare nella letteratura italiana del XX secolo. Di certo una posizione di prestigio assoluto.

Intellettuale di finissimo acume critico, scrittore poliedrico e “solitario”, lontano da precisi inquadramenti politici e movimenti letterari, conservatore e avanguardista, nonché nostalgico illuminista, Calvino ha attraversato il cuore del ‘900 mantenendo sempre un lucidissimo rigore razionale e una volontà quanto mai caparbia di comprendere i diversi aspetti della realtà.

Ha sperimentato mille modi di scrittura, approfondendo molteplici possibilità di rapporto tra i due universi paralleli della realtà e della letteratura.

L’interesse mai sopito per la fiaba e la tradizione della letteratura fantastica, sposato ad una sottile ironia e all’analisi degli interventi della razionalità nel mondo, trova un felice sbocco creativo in tre brevi romanzi: “Il visconte dimezzato”, “Il barone rampante” e “Il cavaliere inesistente”, raccolti insieme nel 1960, a formare una vera e propria trilogia, nel volume I nostri antenati.

Mirato il titolo della silloge: nelle figure dei racconti, personaggi quasi sospesi nel tempo e nello spazio, si possono infatti riconoscere – suggerisce l’autore – i nostri antenati, intesi come modelli di comportamento umano ed intellettuale. Le loro vicende sono la testimonianza di una difficoltà universale dell’uomo nel confronto con il mondo. È il saldo del passato al presente e al futuro.

Tre romanzi, tre storie, tre epoche.

Il visconte dimezzato“, ambientato nel tardo Cinquecento, narra la vicenda del visconte Medardo, diviso in due (letteralmente!) in seguito ad uno scontro con i Turchi; da questa scissione nascono il Buono e il Gramo, che si ricomporranno infine nella persona di Medardo, saggio governatore delle sue terre.

Il barone rampante” è la straordinaria avventura del barone ligure Cosimo Piovasco di Rondò, che, adolescente, nel 1767, decide di salire in cima ad un albero per trascorrervi tutta la sua vita. Partecipa, seppur con distacco, ai grandi cambiamenti socio-politici del suo tempo, attirando inoltre viaggiatori, potenti e curiosi di ogni sorta.

Ne “Il cavaliere inesistente” si respira invece l’atmosfera tipica del romanzo cavalleresco. Siamo ai tempi di Carlo Magno. La vicenda, narrata dalla monaca Teodora, tratta le avventure del cavaliere Agilulfo, di cui, però, non esiste la persona, ma solo l’armatura. È un grande esperimento di meta-letteratura: Teodora si identifica alla fine con Bradamante, amata da Rambaldo, abbandona la scrittura e corre verso l’ignoto.

La trilogia può essere letta tout court come una grande parabola della ragione, del confronto serrato tra mondo e razionalità. I romanzi esprimono nient’altro che diverse possibilità di intervento sul mondo, mettendo in luce gli ostacoli che la ragione incontra nel mondo moderno, in cui perdersi non è l’eccezione, ma la norma. Il tutto è condito dalla sapiente maestria di Calvino, che plasma racconti fluidi e melodiosi, crea figure astratte ma affronta – allegoricamente – problemi di estrema concretezza, amalgama poi l’opera d’arte con quel tocco di leggerezza e di distacco ironico tanto lontano dalla letteratura contemporanea.

Calvino ha poco più di trent’anni quando conclude la trilogia. Eppure, l’impressione è quella di un volontario lascito di testamento, nel quale più che mai si palesa la mano di un grande scrittore, di un uomo perennemente alla ricerca di un senso da dare alle cose.