La leggenda vuole che nonostante sia l’ultima parola pronunciata da Henrik Ibsen sul letto di morte. Nonostante. Nonostante…che? Penso a una frase mozzata a metà, la spinta stroncata di un uomo che aveva ancora qualcosa da dire. E chissà quanto altro avrebbe potuto regalarci, la sua genialità, se fosse vissuto ancora. Ma agli artisti, si sa, è concessa l’immortalità; e Henrik Ibsen, poeta e drammaturgo di calibro internazionale, merita davvero un ruolo di eterno protagonista nella rappresentazione della storia, a cavallo tra due epoche, conciliatore di un mondo che si avviava lentamente verso la decadenza, e insieme esploratore degli allora ignoti recessi dell’animo umano, tanto da essere chiamato il “Freud del teatro”. Freud stesso (e alcuni suoi seguaci in seguito) si dedicò all’analisi psicoanalitica dei personaggi ibseniani; addirittura si potrebbe affermare che, se la femminilità rappresenta un continente nero, e quindi inesplorato, nell’opera freudiana, al contrario fu proprio alla figura femminile che Ibsen dedicò maggiore attenzione, riuscendo a cogliere, meglio del padre della psicoanalisi, molti aspetti segreti e contrastanti dell’essenza femminile, e del dilemma della collocazione della donna in società.
“Ci sono due tipi di leggi morali, due tipi di coscienze, una in un uomo e un’altra completamente differente in una donna. L’una non può comprendere l’altra; ma nelle questioni pratiche della vita, la donna è giudicata dalle leggi degli uomini, come se non fosse una donna, ma un uomo”, scriveva Ibsen nel 1879; una riflessione acuta, probabilmente estemporanea, appuntata di sfuggita su un quaderno, che poi avrebbe dato vita alla stesura di Casa di bambola, la piéce teatrale forse più completa di tutta la produzione ibseniana, in cui la caratura psicologica dei personaggi (soprattutto per la protagonista) è particolarmente imponente. Il dramma interiore di Nora, tormentata dall’impossibilità di scelta tra bisogni interiori e necessità di conformarsi al costume corrente, dilaniata, potremmo dire proprio con Freud, tra principio di piacere e principio di realtà, ancora oggi uno dei personaggi più ambiti e rappresentati in teatro, è manifesto della condizione sia della donna, sia della “moderna” borghesia, contrassegnata dalla perdita di valori, da quel declino della contemporaneità di cui Ibsen fu superbo cantore.
Figlio di un modesto speziale e originario di Skien, piccolo paesino norvegese, Henrik Ibsen incarnò egli stesso il prototipo del piccolo borghese che si dà alla scalata sociale: tutta la sua vita fu proiettata alla conquista di una fama, che sopraggiunse tardiva, da acquisire però non già attraverso la conformità ai costumi, quel “salvare le apparenze” che tanto ossessionava il borghese tipico, ma attraverso la dedizione all’arte, alla drammaturgia ma anche alla poesia, alla necessità interiore di raccontare la società corrente in tutta la sua pochezza, svelandone le vergogne. Eppure, di quella stessa esigenza che egli tanto criticò, mettendola in scena coi suoi personaggi, umoristici in senso pirandelliano, verosimili e per questo amari, ma insieme dei prototipi, dei modelli ai cui comportamenti e alle cui scelte Ibsen affida tutta la sua visione del mondo; di quella stessa necessità di conformismo alle aspettative sociali, Henrik Ibsen fu vittima inconsapevole, quando, innamoratosi in tarda età di una giovane donna, Emilie Bardach, mise a tacere questo sentimento per salvare la sua reputazione, fuggendo da lei con un treno notturno (come fece, ma senza successo, Anna con Vronskij) e scrivendole, otto anni dopo, un biglietto di poche righe per dirle quanto quell’estate fosse stata la più bella della sua vita, come accade nelle più romantiche storie d’amore mancate.
Successore ideale di Goldoni e Molière, primi esponenti di quel dramma borghese in cui l’eroismo della classicità viene degradato alla quotidianità, e dove a trovare posto sono non più personaggi mitologici, ma persone comuni, che in scena portano tutta la qualità, meschina e suprema insieme, dei loro piccoli conflitti interiori, Ibsen incarna, attraverso la sua produzione, anche tutte le conflittualità interne a una società in crisi, caratterizzata dalla perdita di certezze individuali sui temi dell’identità e della collocazione sociale: come più tardi accadrà al Fu Mattia Pascal di Pirandello, anche i personaggi di Ibsen sembrano smarrire la propria individualità nella confusa convenzionalità delle regole civili, traendone un dolore interiore che Freud, contemporaneo di Ibsen, appellò “disagio della civiltà”. Lo stesso disagio che, in quello stesso periodo storico, si esprime nella nostalgia di un Romanticismo che sfocia lentamente nel Decadentismo. Ed è questo che si legge fra le righe dei drammi ibseniani: la perdita di fiducia nei lumi della ragione che spinge l’uomo di fine Ottocento a guardare con amarezza all’epoca classica, di cui cerca, senza successo, di riprodurre l’ormai perduta armonia tra natura e cultura; il tentativo (fallito) di attenuare lo stridente contrasto che è venuto a crearsi nella sua anima; la disperata ricerca (interiore) di qualcosa a cui appigliarsi. Se Nietzesche affermava la morte di Dio e la venuta del Superuomo, Ibsen ci racconta la caduta dell’uomo stesso, che rinuncia, riconoscendo di non averne diritto, a quel presuntuoso prefisso di superiorità, sprofondando nel baratro dell’incertezza e ripiegandosi su se stesso.
Il teatro di Ibsen è un teatro intimista, che mette a nudo ciò che l’essere umano solitamente tiene nascosto; un teatro psicologico, che precede e si ispira alle rivelazioni freudiane sull’esistenza dell’inconscio; un teatro catartico, che, nonostante tutto, riesce a svolgere quella funzione che sempre spetta all’arte: offrire a chi ne fruisce una possibilità di immedesimazione, di riconoscimento universale, di purificazione e di sintesi; ritrovare, pur se per pochi istanti, quella sofferta armonia con l’Altro che da sempre l’essere umano ricerca, e di cui non è mai pago.