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Novecento. Un monologo.

Novecento è un monologo teatrale, pubblicato nel 1994, scritto da Alessandro Baricco che lo ha definito come una via di mezzo tra una messa in scena e un racconto da leggere ad alta voce. O più semplicemente come una bella storia che valeva la pena di raccontare.

Io ho deciso di raccontarla a voi.

 

Esistono storie che vanno aldilà del tempo e dello spazio. Esistono luoghi, sensazioni e pensieri che superano mura altissime e si lanciano nel vuoto, inconsapevoli che quell’aria così leggera li farà cadere nel cuore di ognuno di noi, con un tonfo ricco di echi. Echi che si diffonderanno a lungo e lentamente entreranno nella nostra mente, specchio riflesso di code di sogni. Il mio specchio ha lasciato che dai miei occhi trasparisse la consapevolezza di aver vissuto e di voler vivere intensamente. Un po’ per passione un po’ per insofferenza. Ma ho imparato che non tutti riescono a scendere i gradini. Non tutti riescono a vivere. E mi son sempre chiesta perché. Perché scegliere di star lì a incantare i sentimenti e i momenti, lasciandoseli alle spalle?

Quando Novecento decide di provare a scendere quei maledetti gradini del suo Virginian, lo fa perché è stanco. Sente di aver dato e provato tutto ciò che quella nave poteva contenere, sente che è giunto il momento di guardare il mare dal lato giusto. Ha nella testa quella storia assurda che aveva sentito da un contadino, timorato della vita. “È come un urlo gigantesco che grida e grida, e quello che grida è: ‘banda di cornuti la vita è una cosa immensa, lo volete capire o no? Immensa’ ”. La curiosità è troppa. La paura non può e non deve frenare i desideri. Salvarsi non è più l’unica via d’uscita. Forse l’unica via d’uscita è vivere. Ma Novecento ha sempre vissuto su quella nave, lui è nato lì, sul Virginian, che in un anno toccava le sponde di America ed Europa almeno 5 volte. Nessuno sa realmente da dove provenga Novecento, si dice sia stato trovato da un certo Danny Boodman, un marinaio, nella sala da ballo del Virginian, sullo sgabello del pianoforte. Aveva dieci giorni.
Passano gli anni  e Novecento cresce, sempre lì, su quella nave, senza mai scendere. Poi Danny muore e Novecento fa l’unica cosa che gli sembri più sensata, si costruisce un mondo, il suo mondo su quella nave. Un mondo fatto di musica, di 88 tasti e di un pianoforte. Novecento suona, suona e catalizza la sua attenzione su quelle melodie che non compone, che non studia, ma che fuoriescono dalle sue mani come lunghi rami all’estremità di un albero. Umilia l’inventore del jazz: Jelly Roll Morton. Incanta uomini e commuove donne. E vive così. Raccontando a se stesso che la sua vita è su quella nave e che il mondo al di fuori non è altro che un racconto da ascoltare attraverso le parole di altri. Suonando e viaggiando verso Parigi, Londra, Lisbona. “Negli occhi di qualcuno, nella parole di qualcuno, lui, quell’aria, l’aveva respirata davvero. A modo suo: ma davvero. Il mondo, magari, non l’aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave, lo spiava. E gli rubava l’anima”. Fino a quando, un giorno, arriva Lynn Baster, quel contadino, che racconta a Novecento come si è salvato. “Danny Boodman T.D. Lemon Novecento sarebbe sceso dal Virginian, nel porto di New York, un giorno di febbraio. Dopo trentadue anni vissuti sul mare, sarebbe sceso a terra, per vedere il mare”. Ma quanto costa riuscire a vedere a il mare?

Novecento quei gradini non li scenderà mai. Non toccherà mai la terra. Novecento morirà su quella nave.

“Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino/
Non è quel che vidi che mi fermò/
È quel che non vidi/
Puoi capire fratello?, è quel che non vidi… Io cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne/
C’era tutto/
Ma non c’era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo/
Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu /
Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me/
Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi/
Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai e questa è la verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita/
Se quella tastiera è infinita, allora/
Su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio/”

Nonostante i desideri ci spingano spesso verso l’ignoto facendoci correre pericoli, ma anche facendoceli vedere lì, dove non ci sono, il nostro io spesso non può fare altro che arrendersi. Attingendo linfa vitale da ciò che ci circonda, da ciò che non abbiamo scelto e che ci da sicurezza. A volte un quadro che cade che non crea sufficiente trambusto. A volte un quadro cade solo perché stanco. Allora basta cambiare chiodo. E rimetterlo su. E se non ci sono più chiodi? Allora ti siedi, lì, su una scatola, in mezzo alla sala da ballo e aspetti che tutto finisca.

“E in culo anche il jazz”

Fran.