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Il mare non bagna Napoli per Anna Maria Ortese

E’ il 1953 quando Anna Maria Ortese comincia a scrivere di Napoli, non della città del sole, del mare e della pizza, ma della realtà cruda, reale del dopoguerra partenopeo;

La scrittrice, attraverso una serie di vere e proprie novelle, raccolte poi nel libro Il mare non bagna Napoli, studia, analizza e descrive gli avvenimenti quotidiani, piccoli episodi con una lente d’ingrandimento talmente efficace da aumentarne la portata, lo spessore , la drammaticità.

Ne viene fuori un’analisi lucida e visionaria allo stesso tempo, dove la pietà spesso si dilegua lasciando spazio ad una narrazione sarcastica ed ironica della città-presepe.

Bisogna fare attenzione però a non confondere la verve folkloristica della sua penna con una superficiale assimilazione di questa ad un teatrino senza spessore: non ci sono maschere nella raccolta dell’Ortese, non ci sono caricature: è Napoli, svelata, vera, nuda nei suoi quartieri, nei suoi “bassi”, nei suoi odori forti, nel suo vociare maleducato; un ritratto lucido, critico ma mai denigratorio, sulla Napoli addolorata, difficile, oscura.

Vivere e sopravvivere con disillusione, tra sofferenze e ingiustizie ma mai abbandonando lei, a femmena senza ciort quale può essere  Napoli nel dopoguerra.

Il viaggio consiste in varie tematiche espresse attraverso racconti quali La città involontaria dove protagonista è la miseria umana: un palazzone enorme sovraffolato di persone che vivono in condizioni ai limiti dell’uomo, quasi come se fossero bestie, e rifacendosi all’inferno dantesco, ogni piano vede un limite diverso, dove ovviamente la difficoltà maggiore sta nel vivere ai piani bassi.

La città si riempiva di rumori,ad un tratto, come un infelice si ubriaca. Ma non era lieto, non era limpido,non era buono quel rumore fatto di chiacchierii, di richiami, di risate, o solo di suoni meccanici; latente e orribile vi si avvertiva il silenzio, l’irrigidirsi della memoria, l’andirivieni impazzito della speranza

Il silenzio della ragione, atto di accusa verso gli intellettuali e la loro indifferenza che diventerà una patata così bollente da impedire ad Anna Maria Ortese la possibilità di un ritorno a Napoli.

Uno dei racconti che però ha affascinato di più il pubblico di lettori del tempo ed è diventato manifesto dell’intera raccolta è quello che apre il lavoro dell’Ortese, il primo di questa serie di storie-inchiesta su Napoli:  Un paio di occhiali dove la protagonista è una bambina mezza cieca, Eugenia, che  a causa del suo handicap vede il mondo come una confusa realtà di ombre indistinte; la piccola sopporta le umiliazioni della zia, tirchia ma con il denaro neccessario affinchè Eugenia possa comperare degli occhiali, fino a quando riesce a realizzare il suo sogno.

Non sarà più così vivace Eugenia quando potrà vedere e la sua gioia non durerà che poco tempo

le gambe le tremavano, le girava la testa e non provava più nessuna gioia; si era piegata in due e lamentandosi vomitava

Cosa aveva visto? la realtà che ora, senza nessun velo onirico a proteggerla, le si scaraventava addosso con tutta la sua terrificante crudeltà.

Anna Maria Ortese è stata accusata di essere antinapoletana in seguito alla pubblicazione del suo lavoro; in realtà si difende dalle accuse paragonandosi ad una madre che osserva una realtà orribile con una stretta al cuore, avendo un forte legame con Napoli anche se nativa di Roma

Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale…Qui tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo,la felicità più cantante e il dolore più lacerato…tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva una impressione stranissima, come di un’orchestra i cui strumenti, composti di anime umane,non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione