La straordinaria ricchezza di talenti nella letteratura italiana del XX secolo ha concretamente rischiato di mettere in seconda linea la vita, il pensiero e l’opera di figure dall’indiscusso fascino e dal non comune spessore artistico.
Ma se ci si affaccia senza pregiudizi, con l’occhio dei critici e la curiosità dei bambini, al mondo che un uomo e un libro possono disegnare, si scoprono senzazioni ed emozioni tutte personali. Uniche.
Intellettuale assolutamente atipico, Carlo Emilio Gadda ha diviso la sua lunga vita (1893-1973) tra il mestiere di ingegnere elettrotecnico e la passione per la letteratura, divenuto poi con il tempo il suo principale impegno. La sua formazione tecnico-scientifica e il suo legame con la tradizione letteraria lombarda influiscono profondamente sulla concezione concreta e razionale che egli ha della letteratura, ma il confronto con la realtà individuale e collettiva lo porta ad una prospettiva di assoluta negatività e di impietosa critica verso l’ipocrisia di un mondo borghese al quale pure appartiene, ma nei confronti del quale nutre un incontenibile risentimento.
Tutto ciò esplode ne La cognizione del dolore. Il capolavoro di Gadda è il il romanzo di una vita: iniziato nel 1937, dopo la morte della madre, l’opera si può ritenere praticamente conclusa solo nel 1970, con una nuova edizione contenente due capitoli (o “tratti”, come amava chiamarli l’autore) inediti. In ogni modo, rimase incerto l’epilogo, affidato ad altre pagine che Gadda non portò a termine.
Geniale il titolo. Non la semplice esperienza o presa di coscienza del dolore. Ma la “cognizione”. Come ha spiegato lo stesso Gadda in un’intervista, essa indica un “procedimento di graduale avvicinamento ad una nozione”, un percorso di scavo interiore alla ricerca delle cause più profonde di un dolore lacerante. Dolore che si manifesta in un’insofferenza, che spesso sfocia in un vero e proprio odio, nei confronti del mondo circostante, in primis della madre, figura centrale del romanzo, con la quale il protagonista vive un rapporto estremamente conflittuale, fatto di risentimento, amore, rimpianto.
Il rapporto tra l’ “hidalgo” decaduto Gonzalo Pirobutirro (alter ego dell’autore) e la madre porta in superficie i traumi di un’infanzia difficile, vissuta tra dure rinuce e oppressive abitudini borghesi. È un rapporto che denota in maniera inequivocabile la passione tutta spontanea di Gadda per la psicoanalisi e le sue terapie, utili soprattutto, secondo il suo pensiero, per abbagliare gli aspetti più oscuri dell’infanzia, evidenziare il loro peso sull’esperienza di ogni uomo, trovare un fondamento alla nevrosi, il più grande male della società contemporanea.
Ma ne La cognizione del dolore c’è posto anche per altro. L’attenzione al tormentato universo interiore si affianca all’analisi dei mali e delle storture della realtà che circonda il protagonista. Gadda ambienta il suo romanzo (le varie stazione di una dolorosa via crucis, potremmo dire) in un fittizio paese sudamericano, il Maradagàl, appena uscito da una guerra vittoriosa ma rovinosa con il vicino Parapagàl. Il Maradagàl altro non è se non la trasposizione e la deformazione dell’Italia fascista, che rivive in Sud America con tutta la sua ipocrisia, la sua violenza, i suoi meschini personaggi.
La negatività, insomma, è dentro e fuori.
Nel variegato panorama letterario novecentesco, Carlo Emilio Gadda non è stato certo nè il primo nè l’ultimo ad aver espresso un disagio esistenziale nei confronti di se stesso e del mondo. Ma assolutamente originali sono state la sensibilità e la storia di un uomo “prestato” alla letteratura, chiamato ad un lavoro tecnico del tutto estraneo all’arte della scrittura, “convertitosi” poi, come accade solo a chi trova una ragione di vita e vi dedica tutto se stesso.
E con il peso di un’infanzia traumatica, con l’angoscia nel cuore e la smania di raccontare, ha creato un capolavoro.