Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi
Sono le ultime parole di Cesare Pavese. È il testamento ai posteri di una delle figure più affascinanti che il ‘900 italiano ha conosciuto. Viene steso in pochi secondi sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, che giace sul tavolino di una camera dell’albergo “Roma” a Torino. È qui che Cesare Pavese, in un caldo 27 agosto del 1950, dice addio alla vita, ponendo volontariamente fine a quell’angoscia esistenziale che lo tormentava ormai da troppo tempo.
Troppo sensibile il suo animo, troppo fragile la sua psiche, smisurato il senso di impotenza e disagio nei confronti di se stesso e del mondo. E a neanche 42 anni il tragico esito, un’idea che lo perseguitava. È giovanissimo quando, profondamente colpito dal suicidio di un suo compagno di classe, subisce il sinistro fascino della morte, decidendo di emulare il coraggioso gesto dell’amico. Col tumulto in cuore – come scrive nei suoi diari – si avvia per una strada deserta, armato di una rivoltella. Ma desiste.
Scritto pochi mesi prima del suicidio, tra il settembre e il novembre del 1949, La luna e i falò è da tutti considerato il suo capolavoro. Nel suo ultimo romanzo, Cesare Pavese veste i panni dell’ “io narrante”, che torna ai vigneti del paese natale (nell’Astigiano, terra d’origine del Pavese uomo) dopo aver fatto fortuna in America. Anguilla, il protagonista, non cerca soltanto il ricordo, il reinserimento nella società che l’ha visto crescere o la rivincita sulla miseria dell’adolescenza; cerca qualcosa di più: il perchè un paese è un paese, il segreto ancestrale che lega inscindibilmente luoghi, nomi e generazioni.
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dir non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Al paese Anguilla ritorna non per tuffarsi nel ricordo e recuperare la memoria, ma per ritrovare quel se stesso che si era smarrito sulle coste d’Oltreoceano. A fargli da guida è Nuto (illustri critici hanno già percorso l’arduo binario del parallelismo nel rapporto Nuto/Anguilla e Virgilio/Dante), quel Nuto un tempo famoso suonatore di clarinetto, marxista, disincantato, estremamente realista da un lato e sognatore dall’altro. Colui che conosce le ingiustizie del mondo è anche colui che continua a credere nelle fasi della luna come condizione per le attività agricole e nei falò delle notti di S. Giovanni che “svegliano la terra”.
Storia e mito appaiono due facce della stessa medaglia, di quell’Italia di un tempo, uscita a pezzi dalla Seconda Guerra Mondiale, ma con una straordinaria voglia di rinascere, magari più forte di prima. Non mancano nell’opera i riferimenti ad una situazione contemporanea difficile, nella quale i fascisti e i comunisti giocano un ruolo di primo piano e si scontrano sul fronte della battaglia e della propaganda. Su questa realtà temporale si innesta poi l’a-temporalità, la vasta simbologia dell’immutabile che si manifesta in quei riti sempre uguali a se stessi, in quelle figure umane che sono ancora quelle di un tempo, in quei falò che illuminano le colline piemontesi e si alzano verso la luna.
L’opera, certamente ascrivibile la filone neorealista, sfugge tuttavia ad una precisa classificazione. Ci piace pensare che La luna e i falò possa essere letto sotto diverse lenti d’ingrandimento: una storia cruda e, insieme, lirica, un viaggio dentro se stessi, un ritorno alle origini, una disperata ricerca di identità individuale e collettiva, uno specchio di un’epoca, un’incondizionata accettazione del destino di solitudine dell’uomo. Qualcuno ha parlato di un “poema in prosa”, altri vi hanno scovato una banale sopravvalutazione.
La grandezza della letteratura è anche questa.