Niccolò Machiavelli, una vita divisa tra letteratura e politica, legata fatalmente alla splendida Firenze rinascimentale, nella quale nasce e muore. Gli toccano, in vita, onori e riconoscimenti, ma di certo l’acuto Segretario di Stato fiorentino non avrebbe immaginato che il suo nome sarebbe rimasto scolpito nei secoli.
Corre l’anno 1513. Tra luglio e dicembre, nel forzato otium dell’ “Albergaccio”, Machiavelli si arma di pazienza e stende il poderoso trattato che gli avrebbe garantito imperitura fama: Il Principe. La pubblicazione è del 1532. Bastano poche settimane perchè l’opera diventi terreno di scontro e di discussione, tanto grandi furono l’interesse e lo scandalo suscitato. E nel 1559 Il Principe è già inserito nell’ “Indice dei Libri Proibiti” dalla Santa Congregazione dell’Inquisizione Romana, quando il soglio pontificio è occupato da Paolo IV.
Perchè tanti rumors attorno a questo trattato?
Perchè Machiavelli ha, di fatto, spalancato porte rimaste fino ad allora serrate. Nel tema e nella struttura dell’opera, nella dedica ai Medici, nel tentativo di ingraziarsi il nuovo regime instauratosi a Firenze dopo la caduta della Repubblica, il suo autore mette in mostra la propria competenza tecnica, frutto di tanti anni di esperienza, nonchè la propria eventuale disponibilità a collaborare per la realizzazione di un principato mediceo. Nel fare tutto ciò, nel riportare il pensiero sulla pagina scritta, Machiavelli compie una svolta epocale, svincolando l’etica dalla politica.
Non esiste nessuna morale. Il sovrano, per conservare il potere, deve sapersi adeguare alle mutevoli vicende storiche; deve essere virtuoso, “pietoso” come dice l’autore, ma, all’occorrenza, anche “crudele”. Positivo e negativo abbattono le loro barriere per fondersi inestricabilmente. Geniale la svolta di Machiavelli, che rovescia in modo rivoluzionario la concezione umanistica dell’uomo, ruotante attorno all’idea della totale trasparenza del comportamento, di una piena aderenza tra morale ed azione.
Interpretazioni e contestualizzazioni si sono sprecate fino ad oggi. Ci si è spinti a sostenere che il “machiavellismo” abbia costituito il fondamento ideologico delle grandi, sanguinose dittature del ‘900, ossia il fascismo, il comunismo e il nazismo; regimi che hanno adoperato qualsiasi mezzo per ottenere il potere e, successivamente, conservarlo. Già Gramsci, d’altra parte, aveva strumentalizzato Il Principe, facendone il testo-cardine della presa di coscienza delle masse.
Altri critici hanno invece posto l’accento su una suggestiva teoria di realpolitik, contestualizzando l’opera nelle sue coordinate spazio-temporali: la situazione dell’Italia, e in particolare di Firenze, era disperata. Il pensiero dell’autore si colloca in un momento storico caratterizzato da incertezza e pericolo. Soprattutto, da una sconfitta personale non irrilevante: il Segretario di Stato era caduto insieme alla sua Repubblica. Il trattato che teorizza l’ascesa al potere e la sua conservazione senza scrupoli nasce in un momento di sconfitta pubblica e privata.
Come la maggior parte delle volte accade, tutto ci sembra vero e tutto ci sembra falso.
Insomma, una cosa è dire, come fa per esempio Ernst Nolte, che non si può capire la genesi del nazismo senza tenere conto della concreta minaccia per la Germania rappresentata, all’epoca, dal bolscevismo. Un’altra cosa sarebbe affermare che il “Mein Kampf” va letto solo come espressione di un pensiero politico che nasce dall’incertezza e dalla paura.
Questo non sarebbe più comprendere, ma giustificare.