Mostro sacro della letteratura italiana, Giacomo Leopardi continua ancora oggi a far discutere, ad appassionare, a dividere la critica militante ed il grande pubblico, l’appassionato e il lettore occasionale.
Poeta e filosofo, dotato di straordinaria sensibilità e di raro spessore intellettuale, ha segnato un’epoca, quella prima metà del XIX secolo che pur ha visto in attività tanti ingegni illustri. Gli sono bastati 39 (infelici) anni di vita per imporsi come una delle più importanti figure della letteratura mondiale.
Sconfinata la sua produzione, iniziata in giovane età e proseguita fino alla morte, che lo colse alle falde del Vesuvio, in quella Napoli dove Leopardi trovò, nonostante tante difficoltà, un nuovo attaccamento alla vita, un senso di solidarietà umana tutto partenopeo.
E le opere che lo hanno reso immortale, dalle Canzoni agli Idilli, dalle Operette morali ai Canti recanatesi, paiono avere tutte lo stesso comun denominatore. È un quadernone di appunti, 4.525 pagine che coprono un arco cronologico lunghissimo, che va dal 1817 al 1832: lo Zibaldone di pensieri, lo sconfinato cantiere della mente di Leopardi, la culla della sua filosofia, lo scrigno di riflessioni che ha accompagnato tutta la produzione letteraria del poeta di Recanati e che ne costituisce lo zoccolo duro.
Nello Zibaldone il pensiero dell’autore segue le vie tortuose dell’animo. La riflessione si svolge nel modo più libero, in maniera assolutamente non-sistematica. E non potrebbe essere altrimenti. Quella di Leopardi non è una vera e propria “filosofia”, un insieme ben definito di meditazioni di carattere speculativo. Il suo è un modo di vedere l’uomo, la natura, il mondo. È ciò che rende affascinante, mai banale, sempre moderno (certamente inimitabile) il suo pensiero. Critici anche illustri non hanno mancato di sottolineare come ci sia più di un’incongruenza all’interno dell’opera. Ma lo Zibaldone sfugge a qualsiasi giudizio a posteriori. Coprendo un lungo arco di tempo, prendendo spunto da singole occasioni e dalle letture più diverse, perseguendo l’obiettivo non di raggiungere un risultato stabile, ma di interrogarsi continuamente sul rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo, il pensiero corre il rischio di cadere nel già detto, nella contraddizione, nella riproposizione sotto un altro punto di vista. Come accade nella vita.
È qui che nascono i cardini della filosofia leopardiana, quelli che verranno resi in versi con eccelsa maestria metrica: prima il pessimismo storico, che “salva” ancora la natura e addita la colpa solo agli uomini, rei di un allontanamento dallo stato naturale delle cose verso una degenerante civilizzazione; poi il pessimismo cosmico, che colpevolizza la natura stessa, crudele e spietata, incurante degli uomini e incline solo a salvaguardare se stessa; la teoria del piacere, agghiacciante riflessione che interpreta il momento felice solo come attesa di un piacere futuro o come provvisoria sospensione del dolore; il concetto di amor proprio, che sfocia nel più gretto egoismo; infine, la caduta totale delle illusioni, la constatazione che la natura procede verso il nulla, che il vivere è dominato dalla noia, che la morte altro non è se non una suprema liberazione.
In questo straordinario documento, oggi conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli, c’è tutto un mondo. È l’angoscia di un uomo che cerca risposte, lo slancio verso il mistero della vita.
È il nero su bianco di un universo interiore eccezionalmente ricco, alla ricerca di un equilibrio innanzitutto con se stesso. È un viaggio, nonostante tutto, di speranza.