Tanti sono i personaggi che il genio di Dante ha scolpito nella Storia. La Commedia è, infatti, una galleria di uomini e vicende che il Sommo Poeta ha consegnato, con i suoi versi sublimi, all’eternità. E nella prima cantica, quella che da sempre ha esercitato il maggior fascino sull’immaginario dei più, Dante tratteggia in modo del tutto personale – certamente magistrale – la figura di un antico eroe greco, nato dalla geniale mente di Omero e diventato ben presto un punto di riferimento per tutta la cultura folkrorica e mitopoietica occidentale. Ulisse – si era capito, no? – è il protagonista del XXVI canto dell’Inferno, nel quale sono puniti i consiglieri fraudolenti. Ma l’incontro con l’Itacense sarà particolare. Attraverso il suo racconto, infatti, Dante intende fare di lui il simbolo non della comune sete di conoscenza, bensì di quella vera e propria “ansia” per la conoscenza finale, l’ultima, quella che racchiude tutte le altre e le invera. Ma il monito del poeta fiorentino è perentorio: la ricerca guidata dalla superbia (quel peccato sempre presente nell’Inferno, leitmotiv reale dei peccatori e di Dante stesso), non guidata dalla Rivelazione, porta alla distruzione e alla rovina.
Li miei compagni fec’io sì arguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
L’ orazion picciola, a cui fa riferimento Ulisse nel dialogo con Dante, è, naturalmente, quella sigillata dalla terzina forse più celebre di tutta la Commedia:
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.
Dante non condanna il desiderio di conoscenza dell’uomo (e ci mancherebbe altro, ci verrebbe da dire!), ma la sua ricerca deve necessariamente proseguire in compagnia di quell’unica virtù che può sconfiggere la superbia: l’umiltà. L’uomo deve essere in grado di riconoscere i propri limiti ed ha l’obbligo di rispettare quel confine che lo separa dall’ignoto. Il rapporto che qui si instaura è quello tra microcosmo (l’uomo) e macrocosmo ( l’Assoluto, che il poeta fiorentino identifica ovviamente nel Dio cristiano).
L’Ulisse dantesco altro non è che il simbolo dell’uomo che, accecato da una sete di conoscenza infinita, guidato dalla superbia, non impone limiti a se stesso. L’eroe greco non esita a cavalcare il mare per superare quelle Colonne d’Ercole che segnano il confine del mondo conosciuto. Le stelle in cielo e la terra all’orizzonte illudono l’eroe e i suoi fidi compagni; ma una violenta tempesta, proprio quando ormai sembrava fatta, risveglia le onde e rovescia la nave. Infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso, narra l’Itacense, che con questo splendido endecasillabo sul destino dell’uomo tracotante chiude dialogo, storia e canto.
Ulisse non ha riconosciuto i suoi limiti. Ha tentato di sollevare l’estremo velo, del tutto in balìa della superbia e dell’eccessiva fiducia nel suo ingegno. La sua sete di conoscenza si è trasformata da positiva in negativa; è divenuta nient’altro che una corsa verso il nulla. Colui che è stato considerato un’anticipazione dell’uomo moderno, di Colombo, di Vespucci, cambia statuto nel XXVI canto dell’Inferno, innalzandosi a simbolo dell’uomo che insegue un’apparente forma di bene, capace in realtà di mortificare l’essenza specifica del genere umano. Risulta quanto mai indicativo l’aggettivo che Dante accorda alla missione di Ulisse, al suo volo: “folle”, infatti, rende meglio di qualsiasi altro vocabolo l’idea di un progetto destinato, fin dalla sua concezione, al fallimento.
L’eroe greco, nella sua sfida alle forze della natura, ha perso, ed è sprofondato nell’oceano. Oggi, la cieca fiducia nelle capacità dell’uomo e nella scienza rivive in alcuni scienzati che nel loro “folle volo” aprono le porte a nuove frontiere di esperimenti, come quello sulla manipolazione genetica. Manipolazione che, nascosta dietro la bandiera del progresso, sembra in realtà andare ben al di là di quelle Colonne d’Ercole che Ulisse aveva intenzione di superare. Uno studio che parte certamente da presupposti positivi (d’altra parte come il volo dell’Itacense), in grado, in linea teorica, di rendere migliore e più longeva la vita dell’uomo, ma che sembra voler superare certe barriere e lanciarsi verso un mondo che può mortificare l’essenza umana.