IL MIO PICCOLO DEMONE
I
“appoggiai i gomiti sul davanzale, mi presi la testa fra i palmi; guardavo fuori, lo sguardo rivolto verso il basso; cercai di concentrarmi su di una lucertola che fissava immobile un piccolo lombrico; ero incuriosita, ero spaventata…aspettavo di gustarmi il momento in cui con uno scatto fugace la lucertola avrebbe fatto sua la preda per ritrovare le ingiustizie del potere nella natura che mi era accanto, e nella mia testa che mi comprimevano.
Cosa aveva fatto di male quel verme?
Aveva sbagliato ad essere lì…aveva sbagliato ad incrociare la via del cacciatore…innocente del suo atto vile, innocente del suo delitto.
Anch’io lo ero.
Non avrebbe dovuto ostacolarmi la strada…lui era il colpevole.
Restai qualche minuto in un silenzio velenoso, sotto la minaccia di un castigo imminente….e più il tempo si cristallizzava in quella stanza, più la mia colpa mi logorava il fisico, la mente, lo sguardo….
Non potevo non guardare, era lì…lì come la scena di tortura che si creava davanti ai miei occhi fuori della finestra, lì come la scena di tortura che avevo creato io poco prima.
Ma non ero responsabile…il filo che si spezza non ne ha colpa se c’è stato qualcuno a tirarlo troppo forte prima.
Via da me, via da lì…solo questo gli chiedevo e lui nella sua innocenza colpevole aveva estremizzato la mia sofferenza e provocato il danno…
Ero stata solo giusta…la scelta presuppone sempre una parte danneggiata ed io non volevo esserlo;
non era stato un gesto di squilibrio il mio: nella sana lucidità di quei momenti, avevo progettato la mia resurrezione così come la lucertola aveva aspettato il momento buono per agire.
Chi ha i mezzi vince e che perde non è sempre innocente.
E allora perché i miei pensieri mi laceravano le tempie?
Ero solo troppo stanca per capire…per analizzare…qualsiasi osservatore avrebbe testimoniato a mio favore in un ipotetico processo.
Ma cosa pensavo? Un processo?
E perché mai avrei dovuto sottopormi ad un giudizio insindacabile di estranei che non avrebbero capito?
La stessa vittima era consapevole della giustizia della sua morte.
Non riuscivo a liberarmene.
Sarebbe rimasto lì il corpo…sul letto dove pochi giorni prima aveva pianto per la prima volta…sarebbe stato il mio trofeo…sarebbe diventato il ricordo della mia più che lecita vendetta…
Si muore per la felicità degli altri e in quelle sue lacrime continue, agonizzanti, lui mi aveva dato l’approvazione a compiere l’atto di libertà.
Il sole stava andando quasi a dormire e si sentivano in lontananza urla stridenti di grilli:
perché non smettevano di gridare?
Come potevano incolpare chi per legittima difesa della propria salute fisica e mentale era stato costretto a macchiarsi di un così atroce reato?
Assaporai ancora per un po’ il gusto acre di quei limoni che tempo prima mi erano serviti per dimostrare al mio nemico che anch’io soffrivo di quell’atto…strofinando la polpa degli agrumi sulle ferite che con un lama sottile mi ero inflitta…le cicatrici sarebbe state il ricordo del dolore in quella primaverile giornata di aprile.
Mi addormentai vicino al corpo freddo della vittima, costringendomi ad aprire gli occhi ogni qualvolta il pensiero si allontanasse da quel che era accaduto e guardando con estrema dolenza la manifestazione del mio amore snaturato.
….
Il mattino mi sorprese, mentre con una accuratezza maniacale piegavo i vestitini di quel piccolo corpo che era ancora lì sul letto, in una violacea forma ben diversa da quando intollerante ai miei canti e alle mie cure continuava a strillare acutamente arrossato solo poche ore prima.
Il mio bambino dormiva ed ora ero incantata nel vedere come lasciandomi avvolgere da un silenzio bucolico, potessi quasi immaginarlo respirare lentamente…
Ma era ormai arrivato tempo di lasciarlo per sempre…dopo la notte in cui alla luce di una candela, la sua ombra sul muro era particolarmente deliziosa, al chiarore del mattino la sua figura spaventosa continuava a torturarmi come prima raccapricciante nelle sue rigide mani poco formate…
Avvolsi il mio tesoro in lenzuola di lino bianco e mentre con aria di sfida appesantiva il suo gracilissimo corpo sulle mie braccia stanche e ancora lacerate dai tagli, lo misi in un baule di legno che chiusi con un catenaccio del quale poi buttai la chiave nel folto fogliame che adornava la villa.
…
dopo la brutalità dell’atroce destino che mi aveva reso matrice di quel piccolo diavolo, uscii dalla villa che l’aveva creato, e che io grazie alla fede della mia religione avevo sconfitto e mi concessi un abbandono nel prato vitale del sentiero…
un raggio di sole mi accarezzò il corpo quasi per confortarmi, ma il mio malessere non mi dava pace.
Sentivo dentro di me quelle urla di, quando gestante aspettavo impotente di poter essere esorcizzata dal mio male che si era preso gioco di me e dei mie nervi con un intensità tale da lasciarmi sconvolta a lungo…
E quel pianto forte troppo forte per essere sopportato da natura mortale mi frustrava pesantemente i pensieri, i gesti, l’amore che mi aveva sottratto con una crudeltà atroce.