Tre domande a Michele Navarra.
Ciao, Michele. Da poco è in libreria il tuo romanzo L’ultima occasione, pubblicato da Novecento Editore in una collana dal significativo nome di Versus. Giuristi raccontano. Tu, infatti, sei un avvocato e le storie che racconti hanno al centro vicende giudiziarie (gli anglosassoni le definiscono legal thriller). Gli avvocati scrivono anche per mestiere: per te in cosa si differenzia stendere uno scritto difensivo dallo scrivere il capitolo di un romanzo?
La differenza è enorme. Mentre in uno scritto difensivo sono costretto a restare ancorato alle “carte processuali”, nel capitolo di un romanzo posso spaziare in lungo e in largo con la fantasia. In altre parole, nel primo caso sono obbligato in qualche modo a seguire un copione che altri hanno scritto al posto mio (giudici, avvocati, imputati, testimoni, etc.), nel secondo caso invece posso creare io stesso quelle “carte processuali” di cui mi servirò per la narrazione della mia storia. In uno scritto difensivo, non posso prescindere ad esempio da ciò che ha effettivamente detto un testimone nel corso di un interrogatorio, non posso ignorare un certo accadimento oggettivo, mentre scrivendo un romanzo sono io stesso che decido cosa far dire o non dire a un teste e sono sempre io a decidere quali siano i fatti accaduti, quelli scoperti e quelli ancora da scoprire. È una sensazione quasi entusiasmante, perché alla fine, come scrittore, mi è sempre concesso di “aggiustare il tiro” a seconda delle mie esigenze narrative, di adattare i fatti ai miei scopi, mentre nella realtà della mia professione di avvocato questo ovviamente non mi è permesso e sono io a dovermi adattare.
L’ultima occasione non è un giallo, giusto per adoperare categorie comprensibili. Per dare ai lettori un’idea diciamo che c’è una vicenda giudiziaria alla quale s’intrecciano le vicende personali dell’avvocato Alessandro Gordiani, reduce da una crisi che lo aveva indotto ad allontanarsi dalle aule di giustizia e da Roma. Fin dalle prime pagine la dinamica del delitto è definita, il lettore sa chi ha ucciso chi, ma non sa come andrà a finire, come si evolverà il caso dal punto di vista processuale. Alla fine, quello che forse il romanzo racconta è un’idea di giustizia, i diversi modi in cui si può essere avvocati penalisti e forse anche le sfumature (non soltanto dal punto di vista giuridico) di categorie apparentemente elementari come colpevolezza e innocenza.
Credo tu sia riuscita a sintetizzare con esattezza l’essenza stessa del mio romanzo e sono felice che tu l’abbia percepita in modo così preciso, visto che uno dei miei obiettivi principali (forse il più importante) quando ho cominciato a scrivere “storie giudiziarie” era proprio questo: cercare di far comprendere come funzioni esattamente il processo penale italiano, senza ridicole forzature, ma in modo avvincente e possibilmente non banale. Chi, leggendo i miei libri, si aspettasse di trovarsi di fronte a trovate geniali da parte del protagonista per scoprire l’assassino e assicurarlo alla giustizia resterà inevitabilmente deluso. I miei romanzi partono proprio dal punto in cui il classico giallo termina, cioè dalla scoperta del colpevole. O del presunto tale, perché purtroppo esistono situazioni in cui a finire tra gli ingranaggi della giustizia sono persone innocenti (pensiamo al caso emblematico di Enzo Tortora, ma te ne potrei citare molti altri altrettanto dolorosi). Ne L’ultima occasione peraltro non c’è nemmeno il dubbio su chi abbia commesso il fatto materiale, insomma l’assassino è proprio colui che sembra tale. E allora? Allora bisogna vedere e valutare tutte le sfaccettature dell’azione delittuosa, bisogna cercare di interpretarla, di analizzarla, di esaminare il prima e il dopo (ma anche il durante), di capire se quel che sembra corrisponde a quel che è. Il processo penale italiano (nelle sue varie fasi, investigativa e dibattimentale) si presta magnificamente a un tentativo del genere e il lettore (così come lo spettatore) non può non rimanerne affascinato. Del resto, spostandoci oltreoceano, uno dei capostipiti del “legal thriller” moderno è proprio quel Momento di uccidere di John Grisham, in cui il lettore sa con certezza fin da subito chi sia l’assassino, eppure questa conoscenza non toglie nemmeno un briciolo di piacevolezza alla narrazione (si segue con estrema partecipazione tutto il successivo svolgersi degli eventi e, in particolar modo, la preparazione della difesa da parte dell’avvocato). Ho sempre pensato che qualcosa di simile potesse essere fatto anche con il processo penale italiano e che in tal modo per giunta mi venisse offerta la possibilità – come hai ben detto tu – di raccontare “un’idea di giustizia, i diversi modi in cui si può essere avvocati penalisti e forse anche le sfumature (non soltanto dal punto di vista giuridico) di categorie apparentemente elementari come colpevolezza e innocenza”. Trovo questa tua sintesi davvero indovinata. Naturalmente, io ho voluto raccontare quella che è la mia personale idea di giustizia e come per me dovrebbe comportarsi un buon avvocato penalista, senza rinunciare a offrire al lettore qualche spunto di riflessione ulteriore, quale ad esempio quello relativo alla profonda differenza tra i due concetti di “legge” e di “giustizia” (tema a me particolarmente caro), che spesso vengono confusi o rapposti in un groviglio inestricabile e quanto mai fuorviante. Perché le categorie di colpevolezza e innocenza sono elementari solo apparentemente.
A volte scriviamo opere di fantasia in cui tra gli ingredienti c’è anche un granello di verità, un fatto o una persona o un ambiente reali sui quali poi costruiamo una storia che si allontana da quell’embrione iniziale per assumere una fisionomia del tutto differente e autonoma. È accaduto anche con L’ultima occasione?
Un romanzo molto spesso, forse sempre, è un coacervo di esperienze diverse, un calderone dove tutto si mescola, realtà, fantasia, esperienze vissute, sensazioni, sentimenti, letture personali e tanto altro ancora. L’ultima occasione non fa eccezione a questa regola generale. La storia raccontata è simile per certi versi a tante altre storie che nel corso di questi anni abbiamo (purtroppo) potuto leggere nelle cronache giudiziarie italiane e non solo. Avrei tranquillamente potuto scrivere sulla copertina del romanzo “tratto da una storia vera” o “ispirato a un fatto realmente accaduto” e così facendo avrei allo stesso tempo mentito e detto la verità. Mi collego alla bella domanda che mi hai fatto all’inizio di questa intervista: è sempre l’autore a decidere cosa inserire nella storia da raccontare, quali fatti reali modificare, quali stravolgere, quali inventare di sana pianta, magari facendo riferimento a diverse storie di cronaca, simili eppure diversissime tra loro, o ad attingere a esperienze personali e professionali oppure alla fantasia più pura. In questo mio romanzo c’è un pizzico di ognuna delle cose che hai elencato: c’è un granello di verità, un embrione iniziale, ci sono fatti e ambienti reali (almeno per come li ho percepiti io), ci sono persone reali, o più esattamente “tipologie” di persone reali (categorie antropologiche se preferisci), il tutto assemblato e mescolato con il più potente collante a disposizione di un autore, la fantasia. In questo modo, partendo da un granello di verità, si può dar vita ad una storia assolutamente autonoma, una storia vera, che però ci consenta, con pieno diritto, di avvertire il lettore che, nonostante tutto, il “romanzo è opera della fantasia, che i nomi, i personaggi, i luoghi e gli avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione e dell’inventiva dell’Autore”.
Rosalia Messina