Io non devo scordare
che il cielo
fu in me.
Tu
eri il cielo in me,
che non parlavi
mai del mio volto, ma solo
quand’io parlavo di Dio
mi toccavi la fronte
con lievi dita e dicevi:
– Sei più bella così, quando pensi
le cose buone –
Tu
eri il cielo in me,
che non mi amavi per la mia persona
ma per quel seme
di bene
che dormiva in me.
E se l’angoscia delle cose a un lungo
pianto mi costringeva,
tu con forti dita
mi asciugavi le lacrime e dicevi:
– Come potrai domani esser la mamma
del nostro bimbo, se ora piangi così? –
Tu
eri il cielo in me,
che non mi amavi
per la mia vita
ma per l’altra vita
che poteva destarsi
in me.
Tu
eri il cielo in me
il gran sole che muta
in foglie trasparenti le zolle
e chi volle colpirti
vide uscirsi di mano
uccelli
anzi che pietre
– uccelli –
e le lor piume scrivevano nel cielo
vivo il tuo nome
come nei miracoli antichi.
Io non devo scordare
che il cielo
fu in me.
E quando per le strade – avanti
che sia sera –
m’aggiro
ancora voglio
essere una finestra che cammina,
aperta, col suo lembo
di azzurro che la colma.
Ancora voglio
che s’oda a stormo battere il mio cuore
in alto
come un nido di campane.
E che le cose oscure della terra
non abbiano potere
altro – su me,
che quello di martelli lievi
a scandere
sulla nudità cerula dell’anima
solo
il tuo nome.
Antonia Pozzi
Il dolore per un amore finito, ma la consapevolezza della potenza di quel sentimento.
Leggere le poesie di Antonia Pozzi è come immergersi in uno scorcio di esistenza imprigionato nelle pieghe di un conflitto non risolto. La breve vita della donna è stata segnata, infatti, dalla passione tragica. Osteggiata duramente dal padre nel suo legame con il prof. Cervi, la giovane Pozzi preferisce concludere brutalmente la sua vita con un suicidio, affidando però al segreto delle sue pagine, pubblicate postume, la memoria di quello che era stato.
Al centro del componimento proposto è proprio questo amore, ormai finito. Tuttavia, con una raffinato gioco verbale si alternano presente e passato, quello che fu si mescola a quello che è, quasi a sottolineare gli esiti ancora vivi e destinati a perdurare nel futuro.
La storia si è conclusa e con essa anche tutti i sogni che vi erano serbati, primo fra tutti la gioia di una figlio insieme. Ciò nonostante, i colpi che sono stati inferti all’uomo- qui si allude alla provocata rottura- non hanno ammazzato un sentimento, ma hanno prodotto uccelli che si librano nell’aria, nel cielo che la poetessa sente nel suo cuore.
Ecco che allora il dolore per quello che si è perduto, pian piano, lascia il posto alla cognizione della forza e della potenza che quel legame continua ad esercitare. Io non devo scordare si ripete anaforicamente, marcando proprio questa acquisita consapevolezza.
Bellissime similitudini e intense immagini percorrono l’intero corpo della poesia, che perciò non è solo il luogo del tormento, ma anche e soprattutto quello della speranza. Ed infatti la chiusa del testo è precipuamente un augurio fiducioso: l’autrice si auspica che le angosce quotidiane non scalfiscano nella sua anima il nome di lui che l’ha ispirata e che la ispira ancora.