Virus in latino significa “veleno”. Benchè termini in “–us”, è un neutro, come due sole altre parole latine: pelagus e vulgus. Nel Tantucci, la famosa grammatica del ginnasio, questo bel trio appariva tra le particolarità della seconda declinazione. Non l’ho più dimenticato. Niente di buono in nessuna. Nel pelago ti impelaghi; il volgo è volgare, dunque come insegna Orazio, alla larga. E il vulgus… Be’, quello è virale, ti entra nel sangue e banchetta con la tua vita.
È doloroso e amaro il nuovo romanzo di Nicola Gardini “La vita non vissuta” (Feltrinelli, Milano 2015).
Valerio, il protagonista, è in Abruzzo, al paese, per una visita sulla tomba del padre, ma al cimitero, sotto lo sguardo terrorizzato dell’anziana zia, si accascia per un malore imprevisto, una forte febbre. Stress è la diagnosi del dottore, amore è la diagnosi di Valerio. Perché il suo rapporto con Paolo, conosciuto qualche mese prima e per il quale ha lasciato all’istante moglie e figlia, è tormentato. Paolo è geloso, insicuro e sospettoso.
Quella febbre, scoprirà poi, non è che la prima manifestazione del virus che Paolo, sieropositivo, gli ha trasmesso. Per settimane continua a non sospettare nulla, ignora ciò che è già accaduto. E non pensando a quello che scoprirà di lì a poco, ha al contrario la sensazione salvifica di avere finalmente cominciato a vivere e di potersi finalmente abbandonare all’amore, vero e vagheggiato sin dall’adolescenza. Mentre si trova già negli Stati Uniti per tenere un corso all’università, una telefonata di Paolo lo avverte del probabile contagio. La corsa in una clinica per gli esami del sangue, la conferma e la scoperta dell’irrimediabile. Ed ecco Valerio si ritrova malato e scopre in Paolo un estraneo, dubita di lui, dubita di sé, perdona, si arrabbia, si dispera, si illude, e soprattutto inizia un viaggio alla scoperta della sua nuova identità, respinta e infine accolta.
Ed è l’analisi attenta della sua storia che si snoda dall’analisi della malattia, una vita sviscerata attraverso la compostezza delle citazioni classiche che il professore conosce bene. Cita Ovidio, Orazio e Marco Aurelio. Tutta la sua storia sentimentale, sia il matrimonio con l’ex moglie Marina e la nuova passione per Paolo, sono ricondotti a un vecchio amore non corrisposto per un compagno di liceo e dall’incapacità di ammettere fino in fondo la sua omosessualità. Anche la reazione alla rivelazione, quel suo non voler sapere nulla da Paolo e l’immediata accettazione nonostante tutto dalla convivenza con lui e con la malattia sembrano quasi un sacrificio autoimposto per poi chiedere qualcosa in cambio in cambio al futuro che crede di non avere. Ma il futuro c’è. Sieropositività non è morte, ma è vita, diversa e complicata, scandita da infezioni e cure, analisi e sangue, ma pur sempre vita. La malattia è il nucleo portante e fondamentale del romanzo accompagnato dagli amori difficili, dalle domande che non si pongono neanche a se stessi, dall’incombente minaccia della morte, dall’imprevedibilità della vita, dai viaggi, le letture, gli amici e le piccole gioie quotidiane. Ma c’è soprattutto la malattia come momento e strumento di comprensione e analisi, come momento di adesione vitale alla vita stessa, non a quella che sarebbe stata, la vita non vissuta, ma a quella che realmente è.
La cosa che più avevamo temuto non aveva, avvenuta, niente di temibile.
La resa non era una sconfitta.
Volavamo.