Ho scritto una volta, a proposito di Michela Murgia, che i confini sono limiti segnati dagli uomini, ma esistono, a volte, delle terre che ti appartengono per diritto naturale, per un volere geografico che ti lega indissolubilmente ad un dato luogo.
Che sia un dono, o un peso che si è costretti a portare sulle spalle, non lo si può stabilire se non si è conosciuta mai la forza di quella mano che ti tiene saldamente stretto alla tua terra.
Edward Said, nato palestinese e divenuto cittadino Americano, le contraddizioni di questi confini le ha avvertite come un fatto imprescindibile, un’intricata rete di significati che non possono essere accettati esclusivamente come dati di fatto.
Già in “Orientalismo” Said offre una chiara visione di come le forze politiche, guidate da interessi economici, abbiano tentato di stabilire un “altro”, diverso dal “noi”, stereotipandolo per renderlo meno complesso, e più facilmente attaccabile.
Nella sua lunga carriera, costellata di dibattiti e grandi collaborazioni (come quella con Noam Chomsky), il discorso israeliano-palestinese, occupa comprensibilmente un posto d’onore.
Ne “La pace possibile”, raccolta di suoi articoli, queste idee si chiariscono e prendono una forma più completa, in un’analisi che parte dalla pace di Oslo, e arriva fino agli ultimi giorni di Said, nel 2003.
La sua critica si basa essenzialmente sulle “parole”.
Si ha infatti l’impressione che siano le parole ad essere l’arma più distruttiva in una guerra che devasta una terra affamata di pace.
Le colpe ricadono sui media, guidati da una campagna occidentale capeggiata dagli Stati Uniti.
Sull’onda di un senso di colpa che non trova, e non potrà mai trovare, conforto, il mondo occidentale -spiega Said- tenta di trovare una spiegazione all’olocausto giustificando l’occupazione di Israele, nel 1967, del suolo palestinese.
Per anni le trattative sono state un velo gettato per nascondere la mancanza di soluzioni.
I “compromessi” cercati dalle parti in causa, non sono mai stati spiegati alle masse, e se i media Amercani, e seppur in minor misura, anche Europei, hanno presentato la “questione palestinese”, ignorando volutamente le problematiche di questo popolo, gli stessi leader della Palestina si sono resi complici del delitto.
Said accusa, infatti, Arafat di essere sceso a patti e concessioni senza seguire gli interessi dei palestinesi.
Al Fatah, corrente dell’Olp, avrebbe, a suo avviso, permesso una liberazione delle terre graduale, e in realtà tale solo a voce, per perseguire invece i propri interessi personali.
Edward Said non fa, quindi, sconti per nessuno.
Se l’11 Settembre è stato usato da George W. Bush per giustificare la sua compagna anti-Oriente; gli islamici, puntando sull’ “ignoranza suicida”, sono colpevoli di non aver cercato un dialogo reale con gli U.S.A. rappresentando realmente le atrocità subite dai palestinesi negli anni di occupazione Israeliana.
Esiste allora una soluzione? Può esistere una pace tra due popoli che, martoriati, continuano a ricercare le colpe l’uno nell’altro?
Said prende qui ispirazione dal Sud Africa, e dalle parole di Nelson Mandela:
“porre fine alla discriminazione razziale è un mezzo che permette a tutti noi di affermare la nostra comune umanità”.
Quel “tutti noi” comprende una popolazione unita dall’intento di condividere la pace, di convivere.
Said propone allora l’idea di uno stato unico, in cui il riconoscimento reciproco sia il fondamento di questa pace.
Per far questo è, prima di tutto, necessario spogliarsi della “neolingua” Orwelliana che addormenta le menti tanto occidentali, quanto orientali, e cominciare ad assumersi ognuno le responsabilità del sangue che gli sporca le mani.
Diretto, e mai retorico, Edward Said può piacere o meno, ma la sua è una chiave di lettura fondamentale per comprendere meglio un conflitto che non sembra avere fine.