Fantasmi innamorati del passato
Pubblicato nel 1969, Via Katalin di Magda Szabò è arrivato in Italia solo recentemente e si è aggiudicato il premio per miglior romanzo europeo. Ma perché presentare un libro evanescente e sottile come questo con una dato relativamente pratico? A causa di vicende editoriali che non è il caso di trattare in questa sede, ci siamo persi per strada un pezzo di storia letteraria non indifferente. Il romanzo è anche, e non solo, la storia di una deportazione, vissuta ai margini degli eventi storici e non nucleo sostanziale del libro. È altresì la deriva umana ed esistenziale di un intero nucleo famigliare e uno spaccato sul rimpianto dei più malinconici possibili.
Una famiglia piange il suo passato dall’altra parte del Danubio, osservando la sponda che una volta la ospitava. I suoi componenti vivono emarginati, nutrendosi di sola nostalgia, sulla riva meno nobile di Budapest, protendendosi sulla città che li aveva accolti nei loro anni d’oro. Dai difficili anni Trenta ungheresi ad un presente più recente, i personaggi, abitanti della stessa via e indissolubilmente legati, affrontano lo scoglio della Seconda Guerra Mondiale, valicando l’ostacolo del 1945 senza potersi dire indenni. Perché la Szabò racconta questa storia dalla sua fine? Perché iniziare con l’inconsolabilità dei vecchi invece che dalle loro gioie originarie? Viene mostrato perfettamente quel processo di recupero dei ricordi che fa riaffiorare gli episodi più significativi in una vita costellata di banalità. La loro storia non è altro che una frazione densa di vita.
Le famiglie degli Elekes, degli Held e dei Bíro condividono lo spazio della stessa strada. Fin dall’infanzia i bambini Irén, Blanka, Henriette e Bàlint partecipano a quel paradiso giocoso e inattaccabile costruito appositamente per loro, ma crescendo vite e progetti si distaccheranno e intersecheranno, senza mai allontanarsi veramente gli uni dagli altri. Il matrimonio tardivo che si celebra tra Irén e Bálint è un gesto di consolazione, un ripiego giustificato dalle circostanze di un amore che in passato era sincero, ma che poi viene spezzato dalla guerra. Blanka è quella che con più fatica riesce a trovare un posto nella società e fin dalla sua infanzia si percepisce l’alienazione che la colpirà in età più avanzata. Henriette, tra la vita e la morte, è il personaggio più tormentato, un fantasma che si muove nel tempo oltre che nello spazio e che segue famelica i suoi vecchi amici nello scorrere di esistenze che lei non riconosce più, diventando il nodo di una rete di rapporti che ormai sono andati sciogliendosi.
Immobile, Henriette restò a contemplare le vestigia del proprio passato, pensando che ognuna possedeva una propria storia e chi rovistava tra quegli oggetti non sapeva niente, perché le cose non rispondono agli estranei. I soldati lavoravano rapidamente, quasi metodicamente, nessuno si infilava in tasca qualcosa, raggruppavano tutto secondo categorie, le sedie con le sedie, i quadri con i quadri, gli oggetti piccoli nei canestri, le lenzuola e la biancheria in un unico mucchio.
Si annullano le differenze tra morti e vivi, tra tempo passato e presente, il disgregarsi delle famiglie a causa della guerra diventa una decomposizione quasi naturale, ingenua. Sottile, l’autrice si insinua nell’intimo dei suoi personaggi senza spiegarli, rivelandoceli attraverso i soli gesti stanchi di ricerca disperata del passato. Soprannaturale e sensibile, questa breve opera si pregia dei connotati storici che la rendono una scaglia di particolare nel più generale contesto bellico, senza d’altronde rinunciare all’approfondimento psicologico che è poi il tratto fondamentale di questo piccolo capolavoro.
Andavamo incontro alla vita come due compagni di viaggio a bordo di una nave che dio solo sa dove il vento sospinge, che si abbracciano e si raccontano i loro miseri ricordi perché ricordano le stesse cose, conoscono la stessa terraferma e sanno cos’era la vita laggiù prima che li strappassero a quei luoghi e li scaraventassero brutalmente in mare aperto, e hanno visto lo stesso cielo terso rifulgere d’azzurro quando non rimbombavano ancora i tuoni della tempesta. A ciascuno tocca un solo essere umano da invocare nell’istante della morte.