Il manoscritto di Chopin, uscito per BUR a gennaio 2015, mi ha incuriosito da subito per due motivi: il primo, porta in copertina il nome di Jeffery Deaver, famosissimo autore di thriller (tra cui quelli con protagonista Lincoln Rhyme, che amo molto); il secondo, ad accompagnarlo ci sono altri quattordici nomi di scrittori, per cui il romanzo è stato definito un serial thriller. Deaver ha definito ambientazione e personaggi, scrivendo il primo capitolo. Ognuno dei successivi porta la firma di un autore diverso, fino agli ultimi due, di nuovo scritti da Deaver. È un’idea che ho trovato estremamente affascinante: mi sono immaginata gli scrittori intenti a leggere ciò che è stato scritto prima dai suoi colleghi, cercando gli spunti della vicenda che più li potessero interessare.
Il risultato è un thriller serrato ed emozionante, ambientato tra Kosovo, Italia e Stati Uniti. Gli ingredienti sono esplosivi: un manoscritto sconosciuto di uno spartito, che sembra contenere un codice segreto indecifrabile, vecchie amicizie internazionali che nascondono vicende scottanti, una minaccia di terrorismo, il filo conduttore estremamente affascinante della musica. La trama è complessa, piena di svolte improvvise, colpi di scena, capovolgimenti inaspettati. Numerosissimi i personaggi che popolano la scena, tutti abilmente collegati tra loro. L’intreccio è tale obbligare il lettore a non staccare mai gli occhi dalla pagina, tanto che fino all’ultima riga si teme un ulteriore svolta, un nuovo ribaltamento della storia.
Leggendo questo romanzo, ho cercato di prestare particolare attenzione a tutti i più piccoli dettagli, per cercare di capire in che modo ognuno degli autori utilizzasse ciò che era stato scritto per comporre il proprio capitolo. Sono rimasta piacevolmente colpita quando ho cominciato a notare che tutti gli scrittori, ognuno ovviamente a suo modo, sono stati in grado di prelevare piccoli frammenti della vicenda per svilupparli nel modo più personale possibile. Alcuni hanno deciso di concentrarsi di più su un solo personaggio, altri hanno sviluppato la vicenda da più punti di vista; ho notato la propensione all’azione di alcuni capitoli, quella all’introspezione di altri.
È stato divertente immaginare ognuno degli autori leggere il risultato di questo loro, riuscitissimo, esperimento. Perché se è vero che ogni scrittore sente come propri i personaggi che crea, allora le sensazioni procurate dal vedere i protagonisti della storia animati da una penna che non è la propria devono essere state davvero particolari. Soprattutto, chissà cosa deve aver pensato Deaver riprendendo in mano il libro dopo che, dal suo primo capitolo, altre ventotto mani ne avevano completato lo sviluppo. In ogni caso, qualsiasi sia stata la sua reazione, i suoi due capitoli conclusivi riprendono alla perfezione i fili della vicenda, dando una coerenza finale al romanzo, e lasciando un piccolo spiraglio, nella chiusa, che fa venire voglia di scrivere ancora qualche capitolo.