Quando Charles Schulz cominciò a scrivere e disegnare la sua celebre striscia di fumetti, non credeva certo di avere tanto successo. Non immaginava che i Peanuts (“noccioline”, quindi, piccolezze) sarebbero diventati così popolari da riscuotere un successo mondiale per circa cinquant’anni e oltre. Soprattutto, non avrebbe creduto che, dopo la morte della madre per cancro nel 1943 (la più grande tragedia della sua vita) e la successiva chiamata alle armi, gli anni del dopoguerra gli avrebbero regalato un successo editoriale da far diventare i suoi fumetti forse i più popolari di sempre.
I Peanuts, usciti per la prima volta nel 1950 su sette quotidiani statunitensi, fra i quali il Washington Post e il Chicago Tribune, erano differenti da tutti gli altri fumetti. E il pubblico se ne accorse subito. Charlie Brown e i suoi amici chiedevano ai lettori di vedere e capire quanto fosse difficile essere piccoli in un mondo che degli uomini ha ben poca cura. Schulz sceglie di dare ai suoi personaggi le insicurezze e le incertezze con le quali gli adulti devono confrontarsi ogni giorno. Un modo per dire che anche i bambini soffrono e conoscono sensazioni di impotenza e sconforto, proprio come i grandi. Come scrive David Michaelis nella sua biografia su Schulz, Schulz and Peanuts: A Biography, “Schulz ribalta l’ordine naturale delle certezze”, quelle che facevano dell’infanzia un’età dorata, “mostrando che il dolore in un bambino è sentito più intensamente che dagli adulti, le sconfitte di un bambino vengono sperimentate e ricordate in maniera più acuta”.
Schulz trova quindi un mondo nella sua striscia quotidiana di dar voce al dolore e alla tristezza che attraversano il cuore dei più piccoli. Sono le stesse paure ed incertezze sul futuro e la quotidianità di cui sono preda gli adulti. Schulz non fornisce una soluzione ai problemi della vita, ma mostra i suoi personaggi alla costante ricerca di un modo per sopravvivere ed andare avanti. “L’assenza di una soluzione diventa il centro della storia”, afferma Michaealis, in quanto la capacità di resilienza di Charlie Brown e dei suoi compagni, accompagnata da una pena e nostalgia latenti, sono il fulcro della narrazione di ogni fumetto.
La sintonia fra ottimismo e disperazione in Charlie Brown rende evidente quanto sia difficile riuscire a barcamenarsi fra le varie situazioni della vita, cercando sempre di essere sé stessi, che si abbia dieci, venti, o cinquant’anni. Charlie Brown lo afferma chiaramente: è già difficile essere quello che siamo, figurarsi essere qualcun’altro, ad esempio Abramo Lincoln. Farsi conoscere agli altri è altrettanto problematico. Schulz lo fa attraverso i suoi fumetti, mostrando le sue fragilità e il suo pensiero proprio per voce dei suoi personaggi a cui dona la dignità di essere bambini, di vivere profondamente le emozioni e sentirle con ogni fibra del corpo. Ogni delusione, rammarico, senso di rabbia e sconforto viene ingigantito dal bambino fino a far scomparire il resto. La capacità dei piccoli di soffrire tanto e gioire di nuovo viene mostrata per quella che è: una grande capacità di vedere e sentire quanto siamo piccoli di fronte al tutto. Scrive Michaelis: “Schulz ha ricordato alle persone cosa voglia dire essere vulnerabili, piccoli e soli nell’universo, essere umani, piccoli e grandi allo stesso tempo”.