Questo sole è davvero fastidioso e io mi sono dimenticato a casa gli occhiali scuri, maledizione. Dovrò starmene per tutta la partita con le dita distese sopra la fronte a fare ombra. Quanto è fastidioso non poter utilizzare le mani, rivolgerle ai giocatori, esultarci: è la sfida decisiva del campionato, questa, e sarò costretto a guardarla stringendo gli occhi.
Perché non mi sono ricordato gli occhiali da sole?
Sono già di malumore quando arrivo alla cassa e pago il biglietto d’entrata. La ragazza mi lascia il biglietto e mi saluta con un gesto amichevole, al quale non rispondo. Sento i muscoli tendersi sotto la t-shirt bianca e viola, bianca e viola come i colori della mia squadra, dei miei ragazzi.
È la sfida per la salvezza dopo un campionato disastroso nel quale abbiamo arrancato come mezze checche. Ci vogliono gambe, l’ho sempre detto, gambe!, ma naturalmente no, non ascoltano e fanno di testa loro. Sono ragazzi, certo, ma bisogna correre, c’è poco da fare. Non siamo arrivati in prima categoria passeggiando lungo la linea di fondo campo.
Sono un po’ troppo duro, lo so. Non è colpa dei giocatori, in fondo, alla fine loro hanno potenzialità e fanno quello che possono. La colpa è anche di tutti quelli che ruotano intorno a loro: gli allenatori, a volte i genitori, gli amici… l’arbitro.
L’arbitro.
Vorrei davvero sapere perché fanno così, i direttori di gioco. Non riconoscono gli sforzi, l’impegno, i limiti umani, gli errori: basta mezzo piede in fallo e via!, sei fuori. Se sei fortunato ti becchi un fischio, altrimenti la mano vola dritta alla tasca con i cartellini. Ma loro ci godono, eh. Lo fanno apposta per far innervosire le persone, per eliminare le squadre che non vanno loro a genio, per cacciare quelli che hanno un brutto muso. Sono tutti dei falliti, altri che direttori di gioco.
Il sole continua a battermi dritto sugli occhi, è davvero fastidioso.
«Ehi, Gianni, eccoti! Credevo non venissi più». Un vecchio amico mi accoglie con un’allegra manata sulla mia spalla tesa. Sobbalzo per la sorpresa e ricambio il saluto.
«Ciao, Daniele».
«Questa è l’ultima… sei pronto?».
No, non lo sono, non vedi come sono teso?
«Sì, certo».
«Spacchiamogli il culo, allora!».
Sorrido distrattamente a Daniele, ma ho una brutta sensazione. Qualcosa andrà storto, lo so.
«Hai visto? Arbitra il ragazzino riccio che l’ultima volta ce ne ha buttati fuori tre».
Ah, ecco, lo sapevo. Lo fanno apposta, lo fanno apposta!
Fischio d’inizio, lungo e potente. I ragazzi corrono, hanno cominciato bene, passaggi utili e precisi, ecco che Lorenzo corre verso la porta, dai, dai, tira, tira e…
«GOOOOOL!!». La tribuna si è alzata come un sol uomo, ma Daniele accanto a me ha bloccato le braccia all’altezza dei fianchi e il suo grido di esultanza si è interrotto ancora prima di cominciare. Osserva il campo con uno sguardo stranito che mi fa lentamente voltare verso i giocatori. L’arbitro ha alzato una mano e, con il fischietto in mano, segna il fuorigioco.
«L’ha annullato! L’ha annullato!».
«Dov’è che l’hai visto il fuorigioco, maledetto?!».
«Lo fate apposta!».
«Cornuto! Se la morosa non ti vuole a casa non venire qua!».
«Pagliaccio!».
Le voci gridano, la rete trema sotto la scarica di pugni e calci impotenti. Le mie dita si stringono, i tendini mi fanno male.
Lo sapevo, lo sapevo. Avevo ragione. Vuole mandarci fuori a tutti i costi. Dove l’ha visto, quel fuorigioco? Io con undici decimi di vista e da una posizione privilegiata non l’ho minimamente notato, mentre lui, da laggiù, se n’è accorto. Ma guarda un po’…
La partita continua, nervosa e piena di rabbia per i nostri. Stanno cominciando a distrarsi e a diventare aggressivi, danno il pretesto al cornuto in nero di ammonirli e rimproverarli ogni manciata di minuti. I minuti si trasformano in secondi, un giallo, due gialli, un altro giallo che diventa rosso quando il capitano esplode in una bestemmia che rimbomba fino all’ultima fila delle tribune.
«BASTARDO, COSA PRETENDI? VUOI CHE TI RINGRAZI? VENDUTO, SEI VENDUTO E BASTA! TORNA A CASA! MALEDETTO!».
Gridiamo, gridiamo e soffriamo mentre lui afferra a più riprese il suo fischietto e ci massacra lentamente. Non ci capisco più nulla, il sole non mi acceca più, mi acceca la rabbia che ho dentro. Sacrifici, solo sacrifici per arrivare fin dove siamo ora e poi arriva un damerino in calzoncini che ci rimanda da dove siamo venuti, guadagnandoci la vittoria con le unghie e i denti. La mia mano è stretta a pugno, i denti stridono.
Novantaquattresimo, due a uno per loro, tre occasioni gol mancate per i nostri nel giro di cinque minuti. Ogni volta che si avvicinavano alla porta, ogni santa volta!, l’arbitro fischiava e interrompeva l’azione. L’ha fatto apposta, per tutto il tempo.
Tre fischi lunghi. I biancoviola si avviano verso gli spogliatoi con la testa bassa e la schiena curva, sanno già che in spogliatoio li aspetterà una ramanzina di quelle da chilo. E l’arbitro se ne va spavaldo, dopo aver annotato qualcosa sul suo taccuino. Sorride beffardo, è fiero di sé: ho undici decimi di vista, non mi si possono nascondere certe cose.
«Daniele», mi volto verso il mio amico e gli afferro un braccio. Ha il fuoco negli occhi anche lui, suo figlio è stato espulso a metà partita. Senza motivo. Mi guarda e basta un momento per capire al volo ciò a cui stiamo pensando entrambi. Annuisce e ci allontaniamo lentamente dagli spalti, lasciando dietro di noi la folla urlante, non ancora rassegnata dalla sconfitta.
Sento l’adrenalina che sale, i minuti passano e continua ad aumentare. Le dita mi fanno quasi male a forza di stringerle, le vene blu pulsano sul mio avambraccio teso. Daniele ha gli occhi rossi, le narici dilatate, i polpacci pronti a scattare.
Ci mette meno del previsto, il maledetto. Esce dopo dieci minuti dallo spogliatoio, vestito di tutto punto con la giacca e la camicia, il cellulare in mano e il borsone sulla spalla. Guardalo, il damerino, tronfio come un gallo e profumato come una checca dopo la doccia calda. Questi non sanno nemmeno che vuol dire sudare, correre nel fango sotto la pioggia durante i duri allenamenti di preparazione alla partita, mandare giù il boccone amaro dopo una sconfitta. Scelgono di arbitrare per avere sempre ragione, perché non vogliono perdere, perché sono dei falliti.
Il primo a colpirlo è Daniele: un pugno dritto sul naso che fa stramazzare subito a terra il ricciolino in camicia. Allungo il piede e colpisco lo stomaco prima che le sue ginocchia si pieghino a proteggerlo, poi lo afferro per i capelli e lo rialzo.
Da lì, il buio. Mani che partono, il sangue sporco di quell’arbitro infame macchia la maglia biancoviola che porto ancora addosso, impregnata di sudore. Qualche urlo di aiuto, colpi di tosse, forse anche grida di incitamento. Poi una sirena, Daniele mi trascina via. Mentre camminiamo verso il bar in centro, ride di gusto.
«Hai visto? Hai visto come l’abbiamo conciato, quel maledetto?». Ha le lacrime agli occhi da quanto si sta sganasciando. «Ma l’hai visto?».
***
«Pronto».
«Pronto, Gianni, sono Daniele».
«Daniele, ciao! Come stai?».
«Hai letto sul giornale? L’articolo sull’arbitro che le ha prese da noi?».
«Sì. L’ho letto».
«Dici che ci metteranno dentro?».
«Cinque giorni di prognosi riservata, gli hanno dato. In una settimana è fuori, vedrai. Non è successo niente di grave e a noi non accadrà nulla».
«Lo spero».
«Fidati di me. Almeno quel bastardo ha imparato la lezione».
***
Dicono sempre che le sfortune arrivano tre alla volta.
La sveglia stamattina non ha suonato, mi sono fiondato in auto con un biscotto tra i denti per non arrivare in fabbrica con lo stomaco completamente vuoto e il motore ha deciso di abbandonarmi per i dieci minuti successivi che ero appena riuscito a recuperare. Sto solo aspettando la terza sfiga, che come minimo sarà una multa, data la velocità con cui sto sfrecciando per le vie del paese.
Arrivo alle sei e zero due, in ritardo di quel poco che basta per far sì che sul mio conto ore risultino trenta minuti in meno. Mastico una bestemmia a denti stretti e ritiro il cartellino. La plastica però scotta e lo lascio cadere a terra.
Mentre lo raccolgo, mi rendo conto che è diventato giallo canarino. Prima era azzurro pastello.
Forse la macchina per timbrare il cartellino è guasta. Magari era incandescente, per quello ha cambiato colore. Che strano. Ma non ho tempo per fermarmi a risolvere queste stranezze. Lo riferirò al capoturno.
La fabbrica è già in attività, i miei colleghi hanno avviato le loro macchine e sono già affaccendati. Faccio un cenno di saluto veloce a tutti prima di andare a mettermi la tuta nello spogliatoio.
«Non crederete mai allo scherzaccio che mi ha fatto la macchina per timbrare il cartellino, stamattina», dico ad alta voce agli altri ritardatari. «deve essersi surriscaldata e il biglietto di plastica ha cambiato colore. È diventato giallo».
«Sei stato ammonito. Occhio che al prossimo giallo sei fuori», mi risponde uno di loro.
È una sciocchezza da calciofili, certo, ma per qualche motivo sento un brivido corrermi giù per la schiena. Non riesco a capire chi sia stato a pronunciare quella frase, così mi limito a ridacchiare nervosamente, cambiarmi in fretta e dirigermi alla macchina. Lì mi sta aspettando il capoturno a braccia conserte.
«Sei in ritardo».
«La sveglia non ha suonato e l’auto ha….».
«Zitto. Non mi interessa».
«”Non mi interessa”? Che significa “non mi interessa”?!».
«Significa quello che ho detto. Attenzione, Bortolussi, sto perdendo la pazienza».
«Ah, questa è bella. Arrivo sempre in anticipo e una volta, una!, che mi capita di…».
«Ultimo avvertimento. Poi sei fuori».
«Ma che stronzata è?!».
Il capoturno mi fissa per un attimo con occhi irati, poi allunga una mano verso la tasca posteriore dei pantaloni da lavoro. Lentamente la rialza e mi mostra un foglio di plastica giallo canarino. Esattamente della stessa tonalità del mio cartellino di quella mattina. Poi, senza che io riesca ad aprire bocca, sfila un secondo cartellino. Questa volta è rosso.
«Doppia ammonizione, Bortolussi. Sei fuori. Va’ a farti la doccia, va’».
«Fuori!? La doccia? Che cos’è questo scherzo, chi se l’è inventato? Sei diventato matto?». Le mie grida rimbombano addosso a tutti i muri della fabbrica, tornano indietro colpendo le frese, i torni, le scarpe antinfortunistiche. Nessuno si volta, tutti continuano le loro faccende. Non mi sentono.
«Ehi, che avete tutti? Siete diventati matti?!».
«Sicurezza!». Una parola del capoturno e sento due braccia afferrarmi per le spalle. Do uno strattone, ma qualcuno mi colpisce in volto, facendomi rovinare a terra.
Rialzo lo sguardo verso quello che mi ha colpito e mi ritrovo a fissare il suo viso. Mi manca il respiro.
Il suo naso è leggermente storto, come se fosse stato rotto da poco. Gli occhi castani mi osservano beffardamente e una leggera fossetta si intravede sulla guancia sinistra. Ha i capelli ricci.
È l’arbitro che ho malmenato con Daniele.
Terrorizzato, mi volto dall’altra parte e vedo che il mio capoturno non c’è più. Al suo posto, un altro ragazzino con i capelli ricci e scuri. Alle macchine hanno tutti lo stesso viso, lo stesso naso sbilenco.
Mollo un grido.
«E che ti serva da lezione, Bortolussi. Portatelo via».