«Metti in versi la vita, trascrivi | fedelmente, senza tacere | particolare alcuno, l’evidenza dei vivi. || Ma non dimenticare che vedere non è | sapere, né potere, bensì ridicolo | un altro voler essere che te. || Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano | complicità di visceri, saettando occhiate | d’accordi. E gli astanti s’affacciano || al limbo delle intermedie balaustre: | applaudono, compiangono entrambi i sensi | del sublime – l’infame, l’illustre. || Inoltre metti in versi che morire | è possibile a tutti più che nascere | e in ogni caso l’essere è più del dire»
Giovanni Giudici è nato a Le Grazie (La Spezia) il 26 giugno 1924. In seguito alla morte della madre, dovuta a complicanze sorte dopo il parto, la famiglia si trasferì a Cadimare: il sentimento di lontananza dalla propria città natale e il trauma derivante dalla tragica morte della madre lasciarono un senso di vuoto che accompagnerà l’autore per tutta la vita.
Trasferitosi successivamente a Roma, Giudici intraprese gli studi liceali e proprio a questi anni risalgono i primi componimenti poetici; nel 1943, dopo essersi iscritto alla Facoltà di Lettere scrisse i primi racconti e alcune poesie. Durante il periodo della guerra partecipò all’attività clandestina svolta dal Partito d’Azione, fondando anche il giornale La nostra lotta. Negli anni del dopoguerra militò nello PSIUP e nel 1947 divenne cronista per il quotidiano L’Umanità di Roma, passando poi alla redazione de L’Umanità di Milano; nel 1953 pubblicò la prima raccolta di poesie, Fiorì d’improvviso.
Nel 1956 Giudici si trasferì ad Ivrea per lavorare all’ Olivetti, occupandosi anche della conduzione della rivista Comunità di fabbrica: quest’esperienza lavorativa segnò profondamente lo scrittore, che in molti componimenti ha polemicamente descritto il grigiore degli sfondi aziendali. Il poeta si è spento a La Spezia, il 24 maggio 2011.
Lo stile giornalistico di Giudici è riflesso in modo molto evidente nelle opere: la sua poesia si può infatti quasi definire una cronaca dell’esistenza, soprattutto considerando la mancanza di trasfigurazione in chiave simbolica delle vicende. Vita in versi (1965), ad esempio, è una raccolta che si inserisce perfettamente nel clima di rinnovamento della poesia degli anni Sessanta e presenta inoltre alcuni dei temi più esemplificativi della poetica dello scrittore. Protagonista è la figura dell’autore, un intellettuale impiegato in un’azienda, vittima del neocapitalismo e pervaso da un costante sentimento di frustrazione. Questo stesso tema è declinato diversamente anche nelle poesie, denunciando la spersonalizzazione dell’individuo e il carattere di routine dei sentimenti come conseguenze dell’alienante ciclicità delle azioni; a ciò si affianca la tematica del “travestimento”, unica scappatoia alla monotonia della vita.
Queste realtà, descritte con un lessico piano e quotidiano, costituiscono una denuncia impietosa dell’anonimato a cui è condannata la condizione umana al tempo del neocapitalismo. Una possibile salvezza è prospettata in O Beatrice, attraverso la ricerca di una potenza materna capace di mutare il male in bene.
Nelle raccolte successive, come Il male dei creditori (1977) e Il ristorante dei morti (1981), emerge il tema del sentimento di colpa che induce l’uomo a vivere in un guscio, perdendo così la propria identità. Una svolta nella poetica dell’autore è rappresentata da Lume dei tuoi misteri (1984): si tratta di una raccolta caratterizzata da nuovi temi e nuove forme metriche, espressi tramite una sintassi artificiale.