A confronto il romanzo di John Le Carré e il film di Anton Corbijn
“Signpost” è il nome in codice dell’operazione che coinvolge i servizi segreti di più nazioni e che vorrebbe incastrare un leader islamico coinvolto in affari terroristici. Il grande dilemma è il seguente: costui è considerato al 95% tolleranza e pacifismo, al 5% però è disposto a piegarsi al terrorismo “per scopi più alti”. Cosa fare di lui? L’ispettore Günther Bachmann ha un’idea tutta sua, non vuole arrestarlo ma vorrebbe fargli sposare la propria causa antiterroristica e aggiungere una pedina al gioco di spionaggio. «Noi non gli chiediamo di diventare un traditore, gli offriamo una nuova declinazione di lealtà». Le strade del denaro sono infinite, e così le transazioni sospette che lo incastrano, gli incontri nel buio dei bar più appartati di Amburgo definiscono la strategia per perseguire lo scopo.
Yssa il buono, romanzo di John Le Carré, si trasforma nel film La spia, A Most Wanted Man di Anton Corbijn. I fili che si intrecciano sono di materiali totalmente diversi, ma l’autore li trattiene creando la giusta tensione che un romanzo di questo genere richiede. C’è quello iniziale del pugile turco che accoglie in casa sua uno sconosciuto inquietante, quello più intimo ed esistenziale dove il banchiere Brue si ritrova a fare i conti con il passato, ci sono gli ideali di Annabel Richter che fanno da sottofondo e spingono tutta la storia, l’apparente pazzia di Yssa Karpov, prima torturato dai russi e che ora vuole riscattarsi diventando medico. La trasposizione non rende bene il gioco trasformista dei vari personaggi e i legami che vengono a crearsi, molte ambiguità che trainano la storia e che svelano lentamente le posizioni nel film sono subito visibili.
Cristo santo, diamo solo un’occhiata a cosa abbiamo. Un’avvocatessa libera e maldestra sull’orlo di una crisi di nervi. Un banchiere vicino al fallimento che si è preso una cotta per lei. Un irredentista mezzo ceceno che ha problemi con la giustizia russa, fa volare aeroplanini di carta, ascolta musica e delira di voler diventare medico. E voi pensate di poterli mettere tutti insieme in una stanza per poter incastrare un fondamentalista islamico, maestro di riciclaggio di denaro sporco, che ci sfugge da una vita?
È sempre difficile giudicare un film quando si ha alle spalle il fantasma del libro, ma è soprattutto in casi come questi, quando si affronta una spy story, che tutti i nodi vengono al pettine. Fin dall’inizio il regista, Anton Corbijn ha scoperto le carte, stravolgendo l’ordine in cui vengono presentati i fatti e fornendo tutte le informazioni necessarie per capire cosa sta accadendo. Se Le Carré avvicina lentamente il lettore alla verità, presentando la storia dall’angolo remoto dalla quale comincia (la casa del pugile turco), nel film tutto viene chiarito fin da subito, bruciando eventuali sorprese e ambiguità. L ‘interesse del film risiede nei movimenti dei personaggi, nelle loro scelte che portano al finale. Nella tensione si legge negli occhi di tutti, dal burbero ispettore interpretato da Philip Seymour Hoffman (a cui si dà molto più risalto), Willem Dafoe nei panni de banchiere, Rachel McAdams che interpreta Annabel. Anche la prospettiva devia: i veri e propri protagonisti del romanzo, di cui si seguono le riflessioni e le decisioni sofferte, sono Brue e Annabel. Nel film invece si è voluto oscurare parte delle decisioni che vengono prese dal banchiere e dall’avvocato, così ridotti a semplici pedine. L’infatuamento di Brue per la giovane e coraggiosa avvocatessa (palese fin dal loro primo incontro nel libro) è lasciato del tutto da parte, per dare più spazio (ma sempre e comunque poco) alla vicinanza di lei a Yssa.
Il finale resta tale: frettoloso in entrambe le forme, lascia l’amaro in bocca ma anche un certo senso di soddisfazione. D’altronde è inverosimile che vada sempre tutto liscio.