«Me nona
la ga imparà sta lingua da le anguane
che vien zo da le grote
co sona mesanote
caminando rasente le masiere:
e da le róse
dove le lava fódare e nissói
se sente ciof e ciof sora le piere
e te riva un ferume de parole
supià dal vento
che zola par le altane.
(…)
Sta lingua
la so ma no la parlo,
la xe lingua de morti»
Nato a Vicenza nel 1931, Fernando Bandini è stato un poeta che ha fatto dell’impiego di un idioma trifario la cifra caratteristica della propria poetica: nei suoi testi troviamo infatti la compresenza di italiano, dialetto vicentino e latino. Dopo aver insegnato per un breve periodo a Vicenza è stato docente di Stilistica e Metrica all’Università di Padova e di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Ginevra. Ha ricoperto anche gli incarichi di direttore dell’Istituto per le Lettere, il Teatro e il Melodramma della Fondazione Cini di Venezia, presidente dell’Accademia Olimpica di Vicenza e presidente del Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini di Bologna. Tra i premi letterari che gli sono stati riconosciuti ricordiamo il Premio di poesia “Dino Campana” (2007) e il Premio Librex Montale (2012). Fernando Bandini è morto a Vicenza il 25 dicembre 2013, dopo una lunga malattia.
Nelle quattro raccolte dell’autore si addensano temi e motivi portanti della sua poesia: Memoria del futuro (1969), La mantide e la città (1979), Santi di Dicembre (1994) e Meridiano di Greenwich (1998). Nei testi, l’uso di tre idiomi diversi si affianca all’impiego di una terminologia specialistica, nell’ottica di una rilettura di Pascoli e di una meditazione sulla sorte umana. Alla luce delle tragedie e della disumanità che hanno pervaso il Novecento, Bandini denuncia il dramma del secolo in cui si trovò a vivere; a queste considerazioni si aggiunge la critica di un mondo caratterizzato da una continua mutevolezza, in cui l’intellettuale può soltanto tentare di vivere in modo laterale all’interno di una società che cede in modo unidirezionale ad un generalizzato nichilismo.
Tuttavia, vivere con distacco e con una propria consapevolezza critica permette al poeta di scongiurare i demoni e gli orrori del Novecento, esprimendosi con «la lingua dei morti»: il dialetto. Questo idioma non si presenta come semplice espressione nostalgica di un tempo perduto, ma diventa la forma linguistica che più si avvicina alla realtà delle cose per mezzo della loro evocazione; è inoltre lingua della memoria infantile, delle fiabe e di un mondo mitico.
Appartiene ad un sottoterra linguistico e permette di far affiorare i lati oscuri della psiche e della memoria, dando vita ad ossessioni notturne e apparizioni; pertanto si configura come una lingua che permette di dominare gli orrori domestici e l’interiorità dell’uomo, esorcizzando il disagio della realtà circostante. Sul dialetto si innesta inoltre il tentativo di resistere all’omologazione linguistica dell’italiano, diventata ormai una lingua corrosa e livellata, incapace di esprimere la realtà e di aderire ad essa.