Non è un semplice romanzo di formazione, questo della Morante. In effetti, ha quasi tutti i stilemi di un’avventura picaresca, su un’isola sperduta, fantasmagorica, un microcosmo fantasioso ed irripetibile, ma i viaggi e le iniziazioni dell’eroe convergono verso un’ipotetico grembo materno, paradiso primordiale e arcaico di ogni uomo. L’isola di Arturo, uno dei romanzi più belli, studiati e celebrati della letteratura italiana del ’900 (“Premio Strega” nel ’57), necessita di una lettura complementare e parallela al mito, una sorta di “Achille resuscitato” in chiave moderna. Arturo, ragazzo-stella o piccolo Re (Arturo-Boote, o Artù, mitologico Re della Bretagna), vivrà, nei termini di una sfida impossibile, un fulgida e sempiterna ricerca di sé stesso, destinato a subire dure prove su un’isola cui è legato da una forza inconscia, e che lo condurranno a riconoscere il disincanto e le meraviglie, le gioie e i dolori di questa vita.
Nato a Procida, da un padre di sangue misto, e da una madre mai conosciuta – morta mentre lo partoriva, Arturo Gerace vive anni felici tra spiagge e scogliere, pago di sogni fantastici, con la sua cagna Immacolata, e una piccola barca a mo’ di battello piratesco. Nel giro di due inverni, Arturo matura ma va in crisi, a causa delle nozze improvvise del padre, che portano in casa la matrigna Nunziata, poco più che ragazza, agli occhi dell’eroe un essere inspiegabile, eppure capace di sciogliere, per la prima volta, il suo animo solitario. Con la nascita del fratellastro, e con l’aggiunta di alcune sconcertanti e sorprendenti rivelazioni, si sfascia il piedistallo paterno. Nascono gli amori, si avvicendano vittorie e sconfitte, e una passione morbosa nei confronti della sua stessa matrigna, fino a quando quella scorza della solitudine si sgretola. La comunione con la terra natale, ad un tratto, diventa un irrevocabile divorzio: la definitiva cognizione del dolore che si sublima nella disperata fuga conclusiva.
In questa sua personalissima odissea, Arturo scopre, in un alternarsi d’inferni e paradisi, gli eterni temi dell’esistenza umana: amore, noia, gioia, dolore, disperazione, amicizia…, ma la realtà gli appare stretta, quasi strozzante. La sua percezione delle cose sembra deformata. Egli riconosce un mondo giusto, lo fa con naturalezza e lucidità d’intenti, ma è come se scansasse, o rifiutasse, o fosse incapace di vedere un abisso straziante. Straordinariamente intelligente, i suoi fragili e delicati sentimenti gli vengono rigettati addosso da una realtà ostile. Essendo nato e cresciuto in un’isola, Arturo preferisce ritornare nel suo personale e mitico rifugio, un ventre materno fatto di sabbia e salsedine, dopo aver compreso una realtà per niente accomodante, e la sfrontatezza delle azioni altrui.
Il punto più vulnerabile di Arturo è, allora, la sua stessa cognizione del mondo, le sue pretese, le sue ambizioni, il suo dirompente desiderio di essere adulto, ignaro di aver lottato con delle sottane, che il suo sogno di virilità è un miscuglio di inutilizzabili valori infantili e femminili. L’epopea “piratesca” di Arturo finisce nel momento in cui la vita di un uomo dovrebbe cominciare. Il suo amore per la vita è un sentimento che dall’infanzia è sopravvissuto, e che col tempo si è indurito, ma rottasi la scorza, tutto sembra vacillare: il proprio essere si rivela un frutto non ancora maturo, non ancora pronto al mondo e all’amore. Ovvero, la pretesa impossibile di essere amato come un ragazzo, coi meriti di un uomo adulto.
D’altronde, cos’è l’epopea di Arturo se non il pellegrinaggio, tra le vie dell’esistenza, dell’artista Morante? Tolto quello che sembra l’ineffabile artificio narrativo, resta il volto dell’autrice, la sua faccia scolpita nella memoria collettiva, l’immagine di lei prima come persona fisica, poi come scrittrice che, a differenza della maggior parte dei viventi, proprio come il suo piccolo, mitico e indimenticabile eroe, ha ignorato il riposo, quella pace parassitaria che noi, sovente e con troppa leggerezza, insensatamente chiamiamo “maturità”.
Gli artisti come Elsa Morante hanno percepito una seconda vita nelle cose, una dimensione mistica, psichica, ma anche illusoria. Una menzogna, o un sortilegio che fa perdurare la realtà anche quando di reale non c’è niente, che dà un senso alla vita proprio quando sembra insensata. Le persone infantili sembrano essere vive in un modo particolare, ci ricorda la Morante. Poco desiderabile perché mai del tutto compreso, anticonforme, assolutamente refrattario alla legge del gregge, sempre autentico perché riducibile alla vita di ognuno.
Quindi inimitabile e, per questo motivo, irripetibile.