“Vedi, sono i falò dell’autunno, che purificano la terra e la preparano per nuove sementi. Voi siete giovani. Nella vostra vita, questi grandi falò non hanno ancora cominciato ad ardere. Si accenderanno. Devasteranno molte cose”.
Le storie si possono riprendere in mano per svariate ragioni. Per puro piacere di una lettura leggera, per quell’amore appassionato che ci lega a certi autori. Ma qualche volta, il legame con alcune opere ha a che fare con un’esperienza diversa, un sentimento di inevitabile ricerca di un senso. Per questo la scelta di riproporre oggi, in una nuova edizione, l’opera postuma di Iréne Nèmirovsky, “Fuochi d’autunno” (edito Editori Internazionali Riuniti, 2014), non sembra essere casuale.
Francese d’adozione, ebrea di nascita, Iréne Nèmirovsky è il simbolo della violenza che vince sull’arte e sulla vita. E il triste esodo della sua breve, creativa, esistenza, si riflette come uno specchio che non perdona nelle sue opere. “Fuochi d’autunno”, ultima opera scritta durante la detenzione ad Auschwitz, viene pubblicato solo nel 1957, quando la censura ritrae finalmente i suoi artigli avvelenati dagli autori non graditi. Fuochi come quelli che incendiano le stoppie perché il terreno rinasca, come i fuochi che in un vortice di descrizioni inebrianti, catturano il lettore attraverso pennellate perfette.
Nèmirovsky ci trascina nello spietato campo da guerra dell’esistenza umana, e senza mai sottrarsi alla verità, attraversa le colpe e le illusioni delle Guerre Mondiali, con uno sguardo attento, un occhio nascosto che osserva, da un angolo buio, le insensate danze umane. I suoi personaggi sono come sempre caratteristici di una borghesia malata di avidità, cieca e impotente davanti alle conseguenza della propria arroganza. L’idealismo e la dolcezza di Thèrése, volto pallido e occhi sognanti, vengono schiacciati dal peso di una Storia che non può controllare. Ed è proprio nello scontro con la purezza di questo idealismo, che si definisce il personaggio di Bernard, simbolo della disillusione, dell’incosciente desiderio di sfidare la propria mascolinità in una Guerra di cui non si conoscono ragioni o torti. Così il seme dell’ignoranza e dell’ottusità si insidia nella società, che Nèmirovsky rappresenta crudemente, spietata nell’uso della sua penna, come sempre nelle sue opere. Politica, borghesia, incuranza, tutto si amalgama in un unico sentimento di disgustosa corruzione, espressione costante dell’amara presa di coscienza dell’autrice nei confronti di una patria da cui si sente tradita.
I fuochi dell’autunno divengono allora una metafora più profonda delle sofferenze che attraversano l’esperienza umana, una società che con lo sguardo basso passa sui cadaveri delle speranze e della dignità umana, bruciando il terreno su cui essa stessa cammina. È solo comprendendo le ragioni che hanno creato le ceneri delle civiltà passate, che una nuova generazione può essere ricostruita. E in questa prospettiva più ampia, Iréne Nèmirovsky offre la sua chiave di lettura, ricordando come incoscienza e bramosia, ottusità e insensatezza siano una ricetta letale. La sua scrittura è a volte cinica e, solo apparentemente leggera, il suo tratto passa da uno sguardo all’altro con una semplicità che permette di tuffarsi nella psicologia dei personaggi con estrema agilità. Una delle più grandi scrittrici francesi del Novecento, costretta a scrivere da un reparto di Auschwitz da cui non riuscirà a fuggire.