Insomma, mi sarei esercitato con tutte le morti perché la morte intima e austera fosse fiera di me.
Quando la precarietà non è più una metafora della vita ma la rappresentazione della vita stessa e la morte diventa, paradossalmente, l’unica amica e confidente, la narrazione non può che tingersi di un’ironia amara e nera che, proprio per questo, ci offre la misura della contradditorietà dell’esistenza umana.
E se “il mestiere della morte” o, meglio, l’interpretazione dei morti ammazzati, diventa l’unico mestiere a tempo indeterminato che ci si riesce ad inventare in un mondo fatto solo di lavori a tempo determinato, tra l’accenno di un sorriso e una smorfia d’insofferenza, il lettore è chiamato ad addentrarsi in un racconto che, rompendo i classici schemi narrativi del romanzo, evidentemente lo incuriosisce fin dalle prime pagine e, si scoprirà presto, lo riguarda da vicino perché anche lui, almeno una volta nella vita, per un periodo più o meno lungo, di certo si è sentito precario.
Il protagonista dell’esordio di Alessandro Garigliano, catanese classe 1975 (segnalato al Premio Italo Calvino XXV), appare fortemente autobiografico eppure non ha un nome. E non ha un nome perché non ha identità. È “uno” – qualunque; è “nessuno” – perché non ha un lavoro stabile e quindi non è identificabile con una precisa figura professionale né con un ruolo all’interno della società; è “centomila” – perché ogni volta che trova un lavoro precario si cala anima e corpo nel personaggio, “interpretandolo” con meticolosità tale da dare un peso considerevole ad ogni minimo particolare, come se non dovesse far altro per il resto della vita.
E così è dapprima il commesso di una libreria – lui che, per ammazzare il tempo prima che il tempo ammazzi lui, passa le giornate a leggere; poi un impiegato orientatore dell’ufficio di collocamento – ironia della sorte! – e infine un manovale alle prese con un tetto – proprio lui, maldestro equilibrista sul filo dell’esistenza, sempre in bilico tra il resistere, grazie all’amore della moglie, e il lasciarsi andare alla depressione.
E sono proprio la moglie e la depressione (e quindi la morte) le coprotagoniste di “Mia moglie e io”.
Il tempo coniugale è tempo indeterminato che si contrappone a quello determinato del lavoro. Ai lunghi silenzi di lui, ai suoi smarrimenti, al suo errare, si contrappongono i quotidiani racconti e gli automatismi di lei che, sebbene a sua volta precaria come insegnante in una scuola media, offre al marito una visione diversa della vita, la possibilità di salvarsi.
Lo coinvolge nel suo lavoro e partecipa, in prima persona, a quello del marito. Lo sprona nello strambo mestiere che si è inventato, attraverso un amore dolcissimo e passionale, in cui i morti ammazzati diventano persino “immagini artistiche di morti di morte violenta”.
La creatività, la fantasia, l’amore dunque, “il bene assoluto”, per uscire dal vortice della depressione, quella presenza costante e neanche più così discreta che ormai si è fatta ombra del protagonista e poi compagna. “E la depressione si insinuava come fosse un incanto, un fenomeno di cui potessi avere fiducia.” scrive Garigliano.
Ottimo debutto sul tema della precarietà, dell’assenza di futuro, su“l’odierno bungee jumping sociale” che toglie sonno, speranza e volontà e attanaglia il destino di uomini e donne, privandoli perfino dei loro nomi.
Perché se è vero che il lavoro nobilita l’uomo, lo rende libero (come ironizzava una funesta insegna), gli dà soprattutto dignità ed identità umana e sociale. E contro quella “esistenza dimessa” c’è ancora la possibilità di reagire, attraverso l’ironia, la fantasia, la poesia della figura della persona amata che, nel buio della depressione, appare agli occhi del protagonista come “uno spicchio di luna argentata”.
Dovevamo recitare assieme, io e mia moglie. Un morto da solo destava commozione. Un cadavere solitario emanava vulnerabilità. (…) La migliore arma di difesa è la compagnia.