Malvaldi riesce a far sorridere, anzi ridere dentro mentre si legge, arte tutt’altro che facile. Pensate a quegli sbuffetti che non diventano risata ma che costituiscono l’essenza del divertimento, di un divertissement non superficiale ma sempre intelligente.
Ho divorato la serie dei vecchietti del BarLume, mi sono innamorata del barrista Massimo – sì, barrista – e mi sono immersa nell’Ottocento culinario e naturalmente giallo di Pellegrino Artusi, che Malvaldi fa rivivere in un romanzo recensito qui su Letteratu.
E naturalmente ho voluto leggere l’ultimo Malvaldi, un libro che salva le apparenze ma nel contempo le tradisce, superandole.
Un romanzo che mantiene quel che promette, cioè darci una storia, e divertente per giunta: un intrigo che coinvolge una splendida e capacissima poliziotta, delinquenti veri e presunti, capi vessatori e ottusi, dipendenti frustrati, coppie giovani e mature, felici e in crisi vera o presunta, computer rubati e scambiati – deus ex machina? –, scrittori in crisi… Il classico tema del doppio declinato nella forma toscaneggiante ironica brillante dissacrante alla quale Malvaldi ci ha abituati.
Ma un romanzo che è anche meta-romanzo, quindi non solo un retrobottega sulle beghe editoriali – l’editor carrierista e str…ega che i libri da pompare non li legge neppure, tutta business plan e ricatti sottili a gravare sulla psiche già leggermente in crisi dell’autore; l’anziano editore, legato a una visione romantica del mestiere (emblematica la poltrona su cui si sono assisi mostri sacri della cultura, un po’ trono che inorgoglisce chi viene invitato a sedervicisi, un po’ macchina di tortura produci-soggezione) – ma anche riflessione su cosa voglia dire scrivere, su quanto l’immaginazione possa creare legami tra le persone, che è come un po’ dire che la letteratura può agire sul mondo. Grandioso, no? Anche solo per realizzare l’idea di felicità di un giovane che ama i libri e si trova imprigionato – oltre che in una storia che in prigione ce lo potrebbe portare davvero – in un lavoro che non sente davvero suo.
E poi in questo libro ho trovato – disseminate ci sono altre chicche, ma a voi scoprirle: forma e sostanza, forma è sostanza? – una pagina che vale una decina di lezioni di scrittura.
– «Allora, per l’ennesima volta, mi vedo costretto a chiedermi per quale motivo uno che fa lo scrittore di professione da trent’anni si permetta di ignorare il funzionamento del punto e virgola. Chi legge questo blog lo sa, ma la cosa è talmente importante che va ribadita: i segni di punteggiatura non servono solo a dare ritmo alla frase, i segni di punteggiatura sono veri e propri o-pe-ra-to-ri lo-gi-ci. Usarli in modo sciatto può letteralmente travisare il significato di quello che pensiamo. Se io dico di una persona “È juventino. È una persona di cui non fidarsi” sto dando due informazioni separate, messe in relazione solo dal fatto che mi riferisco alla stessa persona. Se dico “È juventino, è una persona di cui non fidarsi” è chiaro che le due cose sono in relazione, ma non è chiaro in che relazione stiano – magari sto semplicemente elencando tutte le caratteristiche negative del tizio in questione; in ogni caso, faccio capire che secondo me essere juventini è deplorevole. Se io invece dico “È juventino; è una persona di cui non fidarsi” il mio giudizio è chiaro: quella persona è infida in quanto juventina, e stop».