<< Io sono Ubik. Prima che l’universo fosse, io ero. Ho creato i soli. Ho creato i mondi. Ho creato le forme di vita e i luoghi che esse abitano; io le muovo nel luogo che più mi aggrada. Vanno dove dico io, fanno ciò che io comando. Io sono il verbo e il mio nome non è mai pronunciato, il nome che nessuno conosce. Mi chiamo Ubik, ma non è il mio nome. Io sono e sarò in eterno. >>
Tra i più grandi scrittori di fantascienza, occupa un posto di primo piano lo scrittore statunitense Philip K. Dick. Considerato un classico non solo del suo genere, ma dell’intera letteratura del ‘900, Dick è stato precursore del cyberpunk, dell’ avant-pop, e uno dei capostipiti di tutta quella corrente postmoderna in ambito umanistico. Grande indagatore della manipolazione sociale, della distorsione del reale o della comune nozione di “falso”, Philip Dick riprende i temi dell’ontologia filosofica per decriptare i simboli che provengono dal mondo esterno, grazie all’utilizzo di una fervida e trasfigurante immaginazione, e ai frequenti rimandi alla teologia cristiana, alle sostanze stupefacenti, alla psiche umana intesa come imminente patologia, l’alienazione e la dimensione onirica, quest’ultima problematica molto cara all’autore, presente in quasi tutta la sua opera.
Scritto nel 1966 e pubblicato nel ‘69, Ubik è il culmine del suo percorso: una letteratura contaminata dall’immaginario scientifico, dal gotico, dal fantastico e da tanti altri temi della cultura di massa, sui quali galleggiano frammenti di vita quotidiana, intrise di tormento e disagi esistenziali.
In un incredibile futuro, lo spionaggio commerciale viene combattuto con la telepatia e la telecinesi. Alcuni telepati vengono incaricati di monitorare e sorvegliare le grandi multinazionali, nel tentativo di scoprire i segreti dietro al traffico di merci. Per neutralizzare i poteri paranormali delle spie vengono create delle agenzie. In una di esse lavora il tecnico Joe Chip, il protagonista del romanzo, sotto la direzione dell’uomo d’affari Glen Runciter. Entrambi si dirigono sulla Luna per motivi di lavoro, ma restano vittime di un attentato dinamitardo, nel quale Runciter perde la vita. Da allora cominciano ad accadere strane cose: i video-telefonini regrediscono a vecchi telefoni in bachelite, i razzi diventano aerei ad elica, le automobili sono quelle degli anni trenta. Tutto diventa surreale, in un mondo pervaso da una misteriosa pulsione di morte, ma anche di liberazione.
Ma in tutto questo cos’è Ubik? Ubik sembra essere, secondo le più coraggiosi riletture contemporanee dell’opera, la proiezione fantasmagorica del più alto dogma del Cristianesimo, ovvero il mistero della Trinità divina. Se così fosse, Ubik sarebbe senz’altro una divinità, ma anche la quintessenza delle cose. Esso è l’essenza stessa della merce, il nucleo puro dell’ideologia capitalistica americana, inscenata dalla figura patriarcale di Runciter, descritto da Dick come una sorta di vetero-capitalista che guida le sue truppe all’assalto delle grandi Corporazioni transnazionali. La sostanza Ubik capovolge e confonde i valori economici e quelli etico-religiosi. Ognuno di noi è una mera rappresentazione statistica, e anche la vita dopo la morte viene gestita secondo calcoli commerciali. L’immediato utilitarismo del consumo ha soppiantato ogni umanità spirituale.
Essendo qualcosa di divino, Ubik è anche trascendente. Ma qui la trascendenza è necrofila, perversa e schizoide. Grazie a Ubik, si può condurre una vita senza comprendere che si è morti. La realtà, nel suo processo di regressione a livello biologico, è abitata da lazzari viventi. Dick lo descrive come il moratorium, una dimensione di semi-vita dove gli individui, se prima comunicavano coi loro cari defunti, si ritrovano a vivere in “animazione sospesa”, cadaveri senza saperlo. Una situazione così grottesca e suggestiva che, per atmosfera e ambientazione, non ha nulla da invidiare a quella dell’impareggiabile capolavoro del maestro George A. Romero, La notte dei morti viventi.
Ubik è, infine, la materia sfuggente che compone tutta la letteratura. Dick affida a Joe Chip e ai suoi compagni l’ermeneutica di segni indecifrabili che compongono la superficie impenetrabile della realtà. Il limite della letteratura è quello che sottende l’umanità intera, ma è anche il suo nucleo fondativo: l’impotenza nei confronti del reale è la chiave di volta per comprendere la finitudine di ogni uomo, e quindi il suo grado di umanità. Se la sconfitta è inevitabile, e l’unico stralcio di vita che ci resta è nel sogno di qualcun altro, è necessario che questo qualcun altro continui a sognarci, a mantenere viva la nostra memoria, il nostro passato, i nostri sentimenti. È importante scrivere, basta anche una storia inventata, perché il silenzio dell’oblio possa essere interrotto dalla voce dell’uomo, seppure lieve come un sospiro.