Due saggi e un film.
Nel 2014 Leopardi fa ancora parlare di sé e la cosa non sorprende affatto.
La sua produzione letteraria e il suo pensiero filosofico sono così vasti e ricchi da suscitare ancora oggi, e chissà per quanti altri anni ancora, riflessioni, analisi, dibattiti. Con evidente interesse da parte di tutti. Perché se da un lato è impossibile non amare il Leopardi poeta, dall’altro non sarebbe credibile non aver mai provato la necessità di attingere dalla brillantissima mente del Leopardi pensatore le domande e le risposte sull’esistenza umana nel suo complesso. Tanto più che le due versioni del recanatese, nelle opere come nella vita, con tutta evidenza, coincidono e non prescindono l’una dall’altra.
Tuttavia, conoscendo il suo carattere schivo e l’urgenza che sempre provò di porsi “le grandi domande” piuttosto che fare vita mondana, nessuno di noi si sarebbe aspettato di vederlo protagonista di un film.
Interpretato da Elio Germano, uno degli attori del cinema italiano più apprezzati negli ultimi anni, lo vedremo infatti alla 71esima edizione del Festival del cinema di Venezia (dal 27 agosto al 6 settembre) ne “Il giovane favoloso” (il titolo prende in prestito un verso di Anna Maria Ortese) di Mario Martone, regista dell’apprezzatissimo “Noi credevamo”, originario di Napoli, la città in cui Leopardi visse e morì.
Il film è la conseguenza naturale della precedente trasposizione teatrale, curata dallo stesso Martone, delle “Operette morali”, nata dal desiderio del regista partenopeo di andare alla ricerca delle origini della scrittura teatrale italiana, attraverso un viaggio ideale in uno dei testi fondanti della nostra identità culturale. Inserite nel programma delle celebrazioni per l’Unità d’Italia, nel 2011, sono state accolte con grande succeso prima a Torino, poi a Napoli e in una turnée ottenendo grandi consensi di pubblico e di critica (Premio Ubu per il teatro Migliore regia 2011, Premio Leopardiano “La Ginestra” 2011).
“In questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtù ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche”. È così che Leopardi scrive, a proposito delle Operette Morali, a Pietro Giordani, suo interlocutore privilegiato, poi amico e confidente, più consapevole del conte Monaldo delle straordinarie doti di Giacomo, quasi un “secondo padre”, con il quale instaurerà un intenso rapporto, testimoniato anche da una fitta corrispondenza epistolare.
“Ne’ miei dialoghi, io cercherò di portare la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia cioè i vizi dei grandi, i principî fondamentali della calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale e alla filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, della civiltà presente, le disgrazie, le rivoluzioni e le condizioni del mondo, i vizi e le infamie.” scrive ancora Leopardi.
Prima delle Operette morali Mario Martone aveva messo in scena “L’opera segreta”, in cui la parte finale era dedicata al lungo soggiorno napoletano di Leopardi. Ed è proprio dell’esperienza napoletana che si parla nel film, in cui un giovane Leopardi, uscito dalla reclusione recanatese, entra in contatto con una nuova società alla quale non riesce ad adattarsi.
Ma la rivalutazione del Leopardi pensatore non passa solo attraverso il cinema.
Escono, infatti, anche due saggi: “L’ordine dei fati e altri argomenti della «religione» di Leopardi” di Rolando Damiani, leopardista molto noto, e “Desiderio e assuefazione. Studio sul pensiero di Leopardi” di Alessandra Aloisi.
Il primo, affrontando un tema prettamente filosofico e teologico molto controverso, e cioè la riflessione leopardiana sulla religione, si muove su quella sottile linea di confine tra coloro che vollero vedere un Leopardi cristiano e credente e coloro che, al contrario, lo considerarono un ateo, la cui speculazione filosofica negativista (espressa compiutamente nello Zibaldone) non dava altra possibilità se non quella di considerare la vita un deserto dominato da una natura indifferente al destino delle sue creature.
In realtà, in Leopardi, i due confini erano molto più sfumati, chiaro segno di una continua evoluzione del suo pensiero come testimoniò lo stesso Giordani del 1840 quando sottolineò che “la sua religione, come la sua letteratura” era non sacrilega ma “diversa” da quella dei suoi avversari. Una diversità attorno alla quale si fronteggiarono classicisti e romanisti e, di conseguenza, opposte schiere confessionali e laiche.
Il secondo saggio, invece, come dice la stessa autrice nella Premessa, è il tentativo di fornire “una ricostruzione complessiva e quanto più possibile sistematica del pensiero filosofico di Leopardi”, “anche se potrà sembrare un’impresa non solo inutile, ma anche pretenziosa”. E, se non si può prescindere dallo Zibaldone, non mancano “incursioni anche in altri luoghi non strettamente “filosofici”, in particolare nelle Operette morali e nei Canti, considerati non come semplici momenti accessori o esemplificativi di tesi già esposte nello Zibaldone, ma nella loro specifica portata teorica e conoscitiva, capace talvolta di rischiarare alcuni aspetti più propriamente filosofici di questo stesso pensiero.” E i due concetti di desiderio e di assuefazione sembravano essere, secondo l’autrice, “gli unici due a partire dai quali fosse lecito tentare una ricostruzione quanto più possibile complessiva del pensiero filosofico leopardiano”.
Due saggi e un film, dunque. Analisi, riflessioni, dibattiti sempre aperti su una figura affascinante come poche nel panorama della cultura italiana, la cui grandezza in campo filologico e filosofico venne volutamente sottolineata da Pietro Giordani quando dettò l’iscrizione per la lapide:
“Al conte Giacomo Leopardi recanatese
filologo ammirato fuori dall’Italia
scrittore di filosofia e di poesia
da paragonare solo ai greci
che finì di XXXIX anni la vita per continue malattie miserrima
fece Antonio Ranieri
per sette anni fino alla estrema ora congiunto
all’amico adorato.”