Non meraviglia, per chi conosce l’opera e il pensiero di Giacomo Leopardi, la considerazione che il poeta di Recanati nutriva nei confronti del riso. Tra tanti mali e sofferenze il riso gli appariva una grande potenza vitale, strumento in grado di opporsi all’ipocrisia e alle menzogne del genere umano. Chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire recita una nota dello Zibaldone del settembre 1828.
Riso ironico e satira trovano la loro massima espressione nella scrittura dei Paralipomeni della Batracomiomachia, poema in otto canti in ottave. L’opera viene probabilmente iniziata a Firenze nel 1831 e conclusa a Napoli intorno al ’35. La pubblicazione avviene postuma a Parigi nel 1842.
Composizione spesso trascurata dalla critica e relegata tra le opere del “Leopardi minore”, i Paralipomeni rappresentano invece un risultato molto originale: il modello appartiene al mondo classico, e il riferimento è direttamente alla Batracomiomachia (la battaglia delle rane e dei topi) pseudo-omerica, di cui Leopardi aveva compiuto ben tre traduzioni. “Paralipomeni” significa letteralmente in greco “cose tralasciate” e sta ad indicare la natura integrativa dell’opera rispetto alla Batracomiomachia classica.
L’argomento al centro del poema è l’ “epica” battaglia tra i topi e le rane, ma il poeta di Recanati continua la narrazione antica facendo entrare in gioco, in appoggio alle rane, anche i granchi, ma soprattutto adombrando una serie di riferimenti alla situazione storica e politica contemporanea. Granchi e rane sconfiggono i topi, ma questi ultimi si organizzano con tenacia e istituiscono un regime liberale. Spiccano tra di loro il conte Leccafondi e il re Rodipane. Al termine di una serie di vicissitudini diplomatiche e scontri in battaglia, il secondo tradisce i suoi, si accorda con il nemico e abroga la costituzione; Leccafondi, invece, intransigente oppositore, viene costretto all’esilio. Durante il viaggio viene travolto da una tempesta e ripara presso Dedalo, uomo saggio e solitario, che lo conduce a visitare l’oltretomba degli animali: qui Leccafondi cerca aiuto, ma trova solo il beffardo riso dei defunti.
I riferimenti all’attualità sono risultati fin da subito chiari: granchi e rane rappresentano le forze reazionarie austriache, mentre i topi sono i liberali. Se i primi vengono tratteggiati con tratti negativi, i secondi sembrano quasi irrisi per la loro ingenuità e le loro utopiche aspirazioni. Solo il conte Leccafondi appare degno della stima del poeta: onesto e caparbio, pieno di buone intenzioni, deve però riconoscere – scendendo nell’ “Averno dei bruti” – la negatività assoluta del destino umano.
Ed è, palesemente, la negatività di Giacomo Leopardi: non nei confronti dell’essere, ma nei confronti della Storia. Dietro la bizzarra guerra tra rane e topi si cela tutta l’insofferenza del poeta per la condizione precaria dell’Italia della Restaurazione e una critica, aspra e lucida, ai sottili equilibri ideologici e sociali che porteranno all’Unità d’Italia.